Una sorta di autobiografia dolente della classe operaia che ogni anno registra migliaia di morti sul lavoro. Era bello il mio ragazzo – Morti sul lavoro. Canzoniere del dolore e della rabbia è il nuovo libro di Giuseppe Ciarallo in uscita il 29 novembre per l’editore Pendragon. La prefazione è di Luigi Manconi e Chiara Tamburello, la postfazione di Massimo Vaggi, scrittore e avvocato per conto della Cgil nelle cause per amianto.
Nel volume sono contenuti i testi di settantatre canzoni – Il titolo riprende un brano di Anna Identici presentato al festival di Sanremo nel 1972 – che, dal secondo dopoguerra ad oggi, hanno raccontato il dramma delle morti sul lavoro e per il lavoro e settantatre disegni di altrettanti illustratori e illustratrici, tra i quali spiccano dei maestri della satira italiana (Lido Contemori, autore della copertina, Massimo Bucchi, Vauro, Fabio Magnasciutti, Lucio Trojano, Eugenio Saint Pierre, Giuliano, Danilo Maramotti, Sergio Staino, Marco De Angelis, Marilena Nardi, Gianni Allegra, Mauro Biani e tanti altri) e giovani illustratori come Lorenzo Bettinelli, Mario Cicellyn Comneno e Luca Leporatti. Non c’è solo il libro. Le settantatre illustrazioni infatti verranno stampate e incorniciate e diventeranno oggetto di una mostra itinerante che verrà esposta presso le Camere del lavoro, Case del popolo e sedi di altre associazioni che vorranno ospitarla. Il volume è stato stampato in collaborazione con “Afeva Emilia Romagna” (Associazione Familiari e Vittime Amianto) e “Comma 2 – Lavoro e Dignità” (Associazione di giuristi che si occupano di solidarietà sociale a tutela dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori). Abbiamo rivolto alcune domande a Giusepe Ciarallo, scrittore, editore e fondatore di riviste letterarie (Nuova Rivista letteraria, Zona Letteraria – studi e prove di letteratura sociale) autore di libri sul razzismo e sul lavoro in fabbrica.
Giuseppe Ciarallo, quanti anni è durata la ricerca per comporre il libro? Sono 280 pagine fitte di notazioni, testi, date, elenchi di autori…
Tutto è cominciato agli inizi del 2021. A quell’epoca ero direttore e redattore di Zona Letteraria – Studi e prove di letteratura sociale, rivista nata sulla scia di Letteraria, la creatura voluta dal caro amico Stefano Tassinari, in cui ho lavorato fin dalla riunione fondativa. Per il sesto numero della rivista, il collettivo redazionale aveva deciso di affrontare il tema sintetizzato in questa domanda: “La canzone impegnata degli anni Settanta ha passato il testimone alla generazione successiva? Cosa è rimasto di quella incredibile esperienza nel nuovo millennio? Ci sono, oggi, musicisti, gruppi, cantautori che si occupano nei loro testi di giustizia sociale e di tutti quegli aspetti legati alla vita reale di quello che chiamavamo popolo, proletariato, classe operaia? magari idealizzandolo, aggiungo”. Per scrivere il mio pezzo io aggiunsi come argomento imprescindibile quello della sicurezza sui luoghi di lavoro, gli incidenti e le morti ipocritamente dette bianche. Subito dopo l’uscita del sesto numero della rivista ho cominciato a raccogliere materiale pensando al canzoniere così come oggi lo si vede realizzato. Fin dal primo momento, inoltre, mi è venuto in mente di coinvolgere la grande famiglia italiana dei disegnatori satirici, con la quale ho a che fare quotidianamente, per via della mia collaborazione con diverse riviste di umorismo e satira. Nelle mie intenzioni, le settantatre illustrazioni presenti nel libro, diventeranno l’oggetto di una mostra che proporrò alle Camere del lavoro, Case del popolo, circoli Arci e a quelle associazioni che vorranno ospitarci.
Nella sua biografia spiccano titoli di testi hip hop (DanteSka. Apocrifunk, Hip Hoppera in sette canti), oppure Le opinioni di un sax tenore e altri racconti, Amori a serramanico, e altri di carattere più leggero: cosa l’ha decisa ad avvicinarsi a temi dal contenuto così doloroso? E che per giunta resta ancora impopolare, dopo quasi cinquant’anni che si canta la protesta, la lotta, la morte per lavoro? Quando il lavoro c’è…
“Io “nasco” come scrittore di racconti, perché è la forma letteraria più vicina alla mia natura e al mio carattere. Mentre il romanzo, può permettersi anche delle pause nello svolgimento, il racconto deve essere sempre scattante, nervoso, deve colpire il lettore in poche pagine, e colpirlo con un adeguato e sorprendente finale. Dopo trent’anni di scrittura di racconti (e articoli, interviste, saggi) mi ero accorto che non facevo più fatica, il sudore non scorreva più mischiato all’inchiostro. Per questo motivo nel 2010 pensai di scrivere DanteSka, una sorta di viaggio all’inferno dei nostri giorni (ispirato dal mio amore spassionato per la Divina Commedia) in compagnia di un personalissimo Virgilio che individuai nel romanziere russo Fëdor Dostoevskij (mia divinitade). Tutto scritto in quartine di endecasillabo a rima alternata. Un lavoro durissimo, ma il piacere della ricerca di ogni singolo termine, dell’unica parola che funzionasse in uno specifico verso, è stato impagabile e indimenticabile. Allo stesso modo ho cominciato a scrivere sceneggiature per il fumetto. Quindi questa antologia conferma la duttilità con la quale affronto la scrittura. C’è poi un altro aspetto fondamentale. Sono figlio di emigranti e mio padre è stato operaio alla Ciba Geigy, alla Volkswagen di Wolfsburg in Germania. Al suo rientro in Italia lavorava alla Innocenti di Lambrate, a Milano, fabbrica presso la quale ha avuto un incidente che gli ha procurato l’amputazione di un dito della mano sinistra. E io sono sempre andato molto fiero di queste mie origini di migrazione e operaie, perché sono state fondamentali per la mia formazione.
Il titolo del libro “Era bello il mio ragazzo”, canzone del 1972, che Anna Identici “ha osato” portare al festival di Sanremo: lei scrive che le parole affilate di quella canzone rappresentano la voce, l’urlo di quanti tutti i giorni rischiano la vita per un tozzo di pane.
Con “Era bello il mio ragazzo”, brano presentato al festival di Sanremo del 1972 e non a caso eliminato dopo la prima esecuzione, Anna Identici scompiglia le carte in tavola di una kermesse canora fino a quel momento basata sulla tipica canzone all’italiana, nella quale l’amore veniva declinato sempre per la mamma, per la patria lontana, per la fidanzata che ricambia e per quella che ti costringe a un rapporto tormentato. Mai prima di allora qualcuno aveva osato turbare la platea profumata e ingioiellata, con parole strazianti che parlavano di lavoro sfruttato e di morte, parole potenti rabbiose pur nella pacatezza del personaggio narrante: una donna dilaniata dal dolore nell’assistere all’agonia del figlio (o, secondo alcuni, del fidanzato), morente per un incidente in cantiere. In questo senso questo testo “politico” ha portato sul palco della canzone leggera, la voce della povera gente, sfruttata, malpagata e quotidianamente a rischio. Mi è sembrato che il titolo di quella canzone rappresentasse alla perfezione l’essenza della mia antologia che, come recita il sottotitolo è un “canzoniere del dolore e della rabbia”.
Cosa è cambiato nel modo di denunciare il problema sicurezza sul lavoro secondo lei?
Nel raccontare la tragedia quotidiana delle morti sul lavoro e per il lavoro, analizzando i testi salta agli occhi uno stacco netto tra le canzoni della seconda metà del secolo scorso e quelle scritte nel nuovo millennio. Nelle prime è evidente l’influenza della canzone d’autore, i testi scritti da poeti e intellettuali, nei quali c’è sì la collera verso le ingiustizie, ma c’è anche molta ironia, come nei brani de I Gufi, di Jannacci-Fo, di Tony e i volumi, di Roversi- Dalla. Nei testi della generazione successiva l’impronta ironico-satirica scompare quasi del tutto, tranne che nel brano di Caparezza. E poi c’è l’irruzione, nella scena musicale, del rap, genere che ha la rabbia come caratteristica principale. Le parole diventano gragnuole di pugni nello stomaco, come nel testo dei ControRessa, caustico, abrasivo, dove nulla è lasciato all’immaginazione, dove non c’è spazio per la metafora e le parole vengono sbattute con violenza sul muso di chi le ascolta, e di chi ha causato tanto dolore. Ma anche tra le canzoni degli ultimi due decenni c’è spazio per il testo poetico stile vecchia scuola, come nel caso dei brani di Enzo Avitabile, Francesco Guccini, Marco Rovelli, Alessio Lega.
Poeti e intellettuali hanno scritto il testo di almeno una canzone di protesta. Ignazio Buttitta per Otello Profazio ”Lu trenu di lu suli”1964, Dario Fo “Il bonzo”,1975 e la splendida “Vincenzina e la fabbrica” con Jannacci, Roberto Roversi nel ’73 “L’operaio Gerolamo”per Dalla ne Il giorno aveva cinque teste e poi Amodei, Ivan Della Mea, Gualtiero Bertelli… Quanto è stata, è importante questo tipo di presenza?
“L’importanza della loro presenza è stata fondamentale ed è tanto più evidente se rapportata al silenzio e all’assenza di queste figure nel desolante periodo storico che stiamo vivendo da qualche anno a questa parte. Gli intellettuali, gli artisti, dovrebbero sempre rappresentare lo spirito critico di una comunità, dovrebbero essere la spina nel fianco del potere: a questo compito hanno adempiuto quelli del secolo scorso, pensiamo a Pasolini, Sciascia, Gadda, Bobbio… Roversi. Gli intellettuali di oggi, quando intervengono balbettano, e in ogni caso nulla possono contro l’invalicabile muro di gomma costituito da media per la maggior parte “embedded”, e dai social che sono veri e propri frullatori nei quali tutto viene mescolato, dal parere dell’esperto a quello dell’imbecille di turno, con la conseguenza che ogni argomento viene trasformato in una poltiglia insapore e incolore. Il terreno fertile che c’era nell’immediato secondo dopoguerra fino agli anni Ottanta, non è nemmeno paragonabile al deserto creatosi dopo l’avvento del berlusconismo televisivo che ha preparato il terreno a quello politico. Sarà un caso ma c’è un “buco” discografico, per quanto riguarda le canzoni dedicate alle morti bianche, che va dal 1977 al 1994 come se gli incidenti mortali fossero inesistenti o non fosse più importante parlarne. Oggi, poi, la parola “intellettuale” è diventata un insulto, quasi oggetto di derisione.
Mi è un po’ mancata la citazione delle donne che pure hanno cantato lo sfruttamento e il dolore che ne derivava: Giovanna Daffini, Caterina Bueno, Rosa Balistreri, la cantastorie Dina Boldrini morta pochi anni fa, la fiorentina Lisetta Luchini autrice e cantastorie che racconta la realtà sociale della donna oggi e altre….
“Nel libro evidenzio il fatto che prima di avere una canzone dedicata a una lavoratrice e alla sua tragica scomparsa, si sia dovuto attendere il 2010, e che in tutto siano solo sei i brani che hanno per protagonista una donna, compreso il portoghese “Cantar alentejano”. Per quanto riguarda le donne “cantastorie” ho parlato diffusamente di Giovanna Marini anche per il fatto di aver firmato insieme a Pietrangeli il brano “Uguaglianza”, così come di Caterina Bueno e Giovanna Daffini in relazione a quell’importantissima esperienza di studio e riscoperta della tradizione popolare del nostro Paese, che fu il Nuovo Canzoniere Italiano. Lo so ce ne sarebbero tante altre da Rosa Balistreri a Lisetta Luchini, Francesca Prestia e Giada Salerno ma il mio lavoro non era incentrato genericamente sulla musica popolare ma sui brani che trattavano nello specifico l’argomento delle morti sul lavoro e per il lavoro. In ogni caso sono numerose le autrici (Tiziana Oppizzi, Gabriella Martinelli, Lucrezia Di Fiandra, Paola Rossato, Luciana Manca, Anna Maria Bragatto, Emanuela Risari, Mariella Nava), e le interpreti (Maria Carta, Anna Identici, Ornella Vanoni) presenti nell’antologia.
L’autrice: Federica Taddei, già giornalista di Radio Rai, è poetessa. Tra le sue pubblicazioni, la raccolta di poesie Eravamo purissimi (Manni editore)
In apertura, illustrazione di Fabio Magnasciutti dal libro Era bello il mio ragazzo, Pendragon