In un momento in cui il sistema carcerario soffoca sotto eventi critici e suicidi, un calendario dovrebbe raccontare la complessità di un lavoro duro e cruciale. Invece, alimenta una visione riduttiva e intimidatoria

Armati fino ai denti, tre agenti che immobilizzano una persona distesa sul pavimento, un gruppo in assetto antisommossa. Non è un reportage da una zona di guerra ma il calendario 2025 della Polizia Penitenziaria. Un prodotto che sembra più un manifesto di forza muscolare che un racconto della realtà penitenziaria.

Presentato nell’aula magna della Corte di Cassazione, il calendario ha come tema la «formazione». Eppure, ciò che emerge dalle immagini è solo il lato repressivo: passamontagna, scudi, pose da assedio. Non c’è traccia delle celle, dei corridoi, degli spazi comuni. Spariscono anche gli agenti che ogni giorno gestiscono tensioni crescenti, tra sovraffollamento e un numero drammatico di suicidi, sia tra i detenuti che tra i poliziotti.

Le dichiarazioni del sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove e del capo del Dipartimento Giovanni Russo parlano di eccellenza investigativa e rieducazione. Ma nelle foto non c’è nulla di tutto questo. Resta una narrazione monolitica: controllo e emergenza.

In un momento in cui il sistema carcerario soffoca sotto eventi critici e suicidi, un calendario dovrebbe raccontare la complessità di un lavoro duro e cruciale. Invece, alimenta una visione riduttiva e intimidatoria, perdendo l’occasione di restituire dignità agli agenti e al sistema democratico che rappresentano. Delmastro aveva detto di «provare gioia nel non fare respirare i detenuti». Qualcuno deve avere pensato che fosse una buona idea farne un calendario. 

Buon lunedì.