Cronistoria dell'intervento di Meloni in Parlamento, isolata perfino dalla Lega, largamente assente

Cronaca di una giornata alla Camera dei deputati che tra qualche anno rileggeremo sorridendo amaro. 

Ieri Giorgia Meloni è intervenuta di fronte al Parlamento per le comunicazioni in vista del prossimo Consiglio europeo. A differenza delle conferenze stampa – ormai sono un vago ricordo – la presidente del Consiglio è costretta alla tappa. Dovrebbe rispondere ma non ne ha il talento, quindi, al solito, lancia strali. 

In Aula ci sono pochissimi leghisti. L’esser sparuti nelle occasioni doverose è il loro modo di lanciare segnali politici agli alleati. Roba da bisticci tra bimbi. Il fedelissimo meloniano Giovanni Donzelli ci invita alla comprensione. «È martedì mattina», dice. E questo fa il paio con i ministri che vorrebbero l’aumento. Sputare sui lavoratori è un loro innato talento.

Meloni difende il suo progetto di deportazione in Albania. Come? Accusando l’opposizione di essere invidiosa dei risultati che sarebbero potuti arrivare. La strategia è contorta perfino nella frase che la descrive.

Meloni balbetta la difesa sugli aumenti ai suoi ministri tirando fuori Beppe Grillo e gli sperperi degli altri. Il suo vice, Matteo Salvini, è un tizio che ha rateizzato 49 milioni di euro di soldi pubblici in 80 anni. È l’impunità di cui si dice nella novella della pagliuzza e la trave nell’occhio. 

Poi Meloni finge di rispondere al Pd parlando di “macumbe” e di “vodoo”. Al suo fianco c’è un ministro, Valditara, ripreso persino da Mattarella per la querela facile contro Nicola Lagioia e l’autore di questo pezzo. 

Nessuna risposta, molti nemici. Onore pochissimo. 

Buon mercoledì.