Primo sì alla Camera alla riforma costituzionale del ministro Nordio che disegna una giustizia più fragile, più esposta a pressioni politiche, meno indipendente

La Camera ha approvato il primo passo verso la separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti. Una riforma che sa di passato, blindata senza dibattito, come ha sottolineato Giuseppe Santalucia dell’Anm. Il governo la chiama rivoluzione ma è difficile non vedere in questo provvedimento il compimento di un disegno preciso, portato avanti per anni, amato da Licio Gelli e da Silvio Berlusconi. 

Separare i ruoli significa stravolgere la struttura stessa della giustizia. Non è un dettaglio tecnico, come qualcuno vorrebbe far credere: è un cambio di paradigma che rende i giudici più vicini al potere e più lontani dai cittadini. La promessa di spezzare le correnti è solo uno slogan. La realtà è che questa riforma disegna una giustizia più fragile, più esposta a pressioni politiche, meno indipendente.  

Il ministro Nordio, dal suo banco, parla di efficienza. Eppure basta leggere i documenti ufficiali per scoprire che i problemi reali del sistema – processi lenti, carichi di lavoro insostenibili, infrastrutture inadeguate – restano lì, intatti. L’obiettivo non è migliorare la giustizia, ma ridisegnarla in modo che sia meno scomoda.  

Questa non è una riforma neutra. Non è un atto dovuto. È un manifesto politico. E ora, con un referendum all’orizzonte, il governo gioca una partita pericolosa, presentandolo come un voto pro o contro i magistrati. Ma il punto sarebbe l’equilibrio democratico. La separazione delle carriere non spezza le correnti: spezza la giustizia. E una giustizia spezzata non è più giustizia.  

Buon venerdì.