Dietro gli slogan, c'è un Paese che invecchia senza rigenerarsi, che occupa senza emancipare, che racconta occupazione mentre comprime diritti

Al netto della propaganda da rotocalco, dei teatrini tra ministri vacui e degli ossimori riformisti a uso e consumo di talk show, l’Italia reale sta in fondo a una tabella Ocse. Dal 2021, i salari reali sono scesi del 7,5%: il peggior dato tra i Paesi avanzati. È il prezzo della stagnazione strutturale, camuffata da “record occupazionali” che reggono solo se si ignora che il 33% dei lavoratori privati ha ancora un contratto scaduto. Il tasso di occupazione è del 62,9% contro una media Ocse del 70,4%, e il lavoro cresce solo sopra i 55 anni.

In un’Italia dove si lavora di più e si guadagna meno, la forbice generazionale si allarga. I baby boomer godono di redditi più alti dei giovani, rovesciando il rapporto del 1995. Nel 2016 il reddito degli over 55 ha superato del 13,8% quello dei lavoratori più giovani. Il Pil pro capite, a produttività costante, è destinato a calare dello 0,67% all’anno fino al 2060. Eppure si continua a parlare di crescita come se fosse un destino, mentre l’unico trend stabile è quello della fatica: il 42% dei lavori è fisicamente impegnativo, e si chiede agli anziani di restare in servizio e ai giovani di accettare l’erosione delle prospettive.

Dietro gli slogan, resta un Paese che invecchia senza rigenerarsi, che occupa senza emancipare, che racconta occupazione mentre comprime diritti. È questa l’Italia che i numeri raccontano: un Paese dove l’austerità è diventata sistema, e l’equità un ricordo. Un Paese che assiste al declino, mentre i suoi governanti fingono di non vedere. E neppure arrossiscono.

Buon venerdì.

foto gov.