“Lo scrittore americano Jonathan Safran Foer, nella stagione della pandemia, aveva preso l’abitudine di lasciare ogni mattina sul pianerottolo una poesia per i suoi vicini. Una terapia eccentrica: si prescrive l’assunzione di una poesia al giorno. Al risveglio dopo i sogni o dopo gli incubi. E’ preferibile vi sia silenzio intorno.Tutt’al più, direbbe il poeta, stormir di fronde.”
Così nella prolusione del suo bel libro Rimembri ancora (Il Mulino), lo scrittore e saggista (ma anche voce di Paginatre e La lingua batte su Radio 3) Paolo Di Paolo dichiara l’intento che lo ha spinto a scrivere questo testo colto e appassionato. Ci tiene a precisare che il libro è diretto a chi la poesia la frequenta e chi no, ma specialmente a chi, giovane o meno giovane, a scuola ha avuto la sensazione di “subire”, a volte, la scrittura poetica e gli autori della medesima. Una specie di corteo monumentale di testi anche bellissimi, ma sospesi nel loro tempo, come non avessero riferimento anche all’oggi, come se non fosse possibile interpretare il pensiero di un “grande” senza avere la sensazione di rubare.
Questo è un lavoro di grande finezza, potremmo dire, quasi un risarcimento per chi ha studiato secondo metodi correnti, a volte frettolosi, che non si sottraggono all’ovvietà?
Nella cabala delle esperienze nella mia esistenza, e in quella altrui, ho visto che quel che si chiede è un tipo di insegnamento nuovo. A dartelo capita sia il professore o un supplente inaspettato, che ti fa scoprire un altro volto di un autore e ti porta lontano. E’ un lavoro prezioso, bisogna “rieleggere”le parole, farne brillare il senso, e questo non accade ad un’unica età non si impara solo da giovani, ci sono tante occasioni di “riancoraggio” al materiale che si studia o si è studiato. Anche da adulti. A volte insegnando, chiedevo all’alunno di completare il verso, da questo mi accorgevo come era stato compreso il senso. Ora parlo di giovani, ma il discorso vale anche per gli adulti che hanno studiato certi autori forse di malavoglia, superficialmente. Sandro Veronesi ha scritto tempo fa in un articolo “ proprio quando si comincerebbe ad essere allievi si smette di andare a scuola”.
Tu hai avuto maestri illustri, da Luca Serianni a Giovanni Getto, da Giulio Ferroni, De Benedetti, Bianca Maria Frabotta, lei stessa poeta. Nel libro ricordi appunto come Serianni abbia segnato la tua preparazione e insieme a Getto ti abbia dato di Ugo Foscolo, autore vissuto a scuola come titanico e un po’ ridondante, una rilettura che ne metteva in evidenza la terrena fragilità. Racconti come il poeta Giovanni Raboni abbia saputo cogliere in Carducci, anche lui retorico cantore per definizione, la “maschera” dietro la quale si nascondeva, trovando in alcune poesie, la capacità di“venire meno” alla sua fama legata ad esaltazioni vittoriose. Ma ci vuole uno sguardo profondo…
Non soltanto sono stati formativi dal punto di vista professionale. Luca Serianni mi ha lasciato un modo di vedere la realtà che esula dal mio mestiere di scrittore. Un’apertura mentale e una capacità di elaborazione che solo i grandi maestri possono trasmettere. Di Frabotta ricordo in particolare la precisione analitica sui testi di Ungaretti. Leggeva una brano e poi diceva “adesso interpreta”chiedendo molto più che non un’analisi sulla struttura. Abituandoci a pensare, a metterci alla pari.
Sono illuminanti i passaggi in cui Pascoli conosciuto per le “piccole cose” tranquillizzanti e familiari, è visto in una realtà fatta di rapporti un po’ ricattatori, di piccole vendette nei confronti di una sorella specialmente”. Come sei arrivato a questa lettura?
Sì, riferendomi alla famosa poetica del Fanciullino, in cui parla della meraviglia, dello straniamento ingenuo, ho presentato un “fanciullino dark”, quasi spezzato un Pascoli “nero”, che contrasta con l’immagine un po’ bamboleggiante praticata nelle antologie. E’ il frutto di un mio dottorato di ricerca, in cui ho evitato le prospettive canoniche. In realtà si intuisce la “terra desolata” che si apre dietro di lui, in quella vita stretta tra le mura di casa, la sua paura di perdersi senza quel sostegno, c’è una sorta di “unheimlich” un perturbante che lo estranea, in realtà, da ciò che gli è familiare”.
Nel libro ci sono molti raffronti interessanti come il cielo visto da Giacomo Leopardi nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” e il cielo stellato delle Myricae pascoliane. Il passaggio repentino e commovente dalla voce di Leopardi a quella di Tabucchi, intenti entrambi, in epoche lontane tra loro, a parlare a chi non c’è più, ma che è più che mai presente : “Dolce e chiara è la notte e senza vento…”. E altri paragoni letterari molto originali.
Ho descritto le farfalle amate da Gozzano, la poesia infantile di Leopardi sulla minestra (che non gli piaceva mai) ma anche il “vento” che soffia nei Sepolcri, il tempo che prende senso a seconda di quel che il poeta sente. Ho mescolato l’alto e il basso, una contaminazione che giova alla comprensione. Non bisogna aver paura della poesia: quel che si deve temere è, come io dico, la conquista, il voler di capire ogni cosa. Ma la poesia è una specie di musica, accade quando le frasi si mettono a ballare…
E poi il Novecento studiato a scuola che, scrivi, “è un corridoio che si percorre a passi svelti quasi di corsa comunque un po’ in affanno. È vero, ricordo la stessa cosa ma c’è un motivo a questa accelerazione secondo te? Succede a fine anno scolastico?
A 30 anni dalla riforma Berlinguer, i programmi non sono mai stati rivisti, non saprei dire perché. Forse si preferisce muoversi ancora su schemi molto conosciuti. Anche nel mio libro, cito abbastanza velocemente Caproni, Saba, Montale, e, tra le donne Alda Merini, Amelia Rosselli e Antonia Pozzi. Nonostante ci siano molti altri poeti che varrebbe la pena studiare. Racconto però i miei incontri con Mario Luzi, Spaziani e i miei tremori di giovanissimo letterato. Qui nel libri ho ripercorso quei programmi, quelli che hanno studiato i miei coetanei e la generazione precedente, e quella attuale. Con un altro sguardo pensando facesse piacere “rimembrare ancora”, capire perché amare da grandi le poesie studiate a scuola.
“Con una leggerezza che non è mai superficialità, anzi è la chiave per entrare a contatto con i nomi più celebrati, hai messo un po’ in gioco anche te stesso, la tua ricerca nei confronti della scrittura. Oggi da autore affermato cosa senti di dire ai lettori?
Che per scrivere, ma anche solo per amare la scrittura, bisogna saper immaginare, acquistare questa attitudine. che vuol dire il contrario che tagliare con l’accetta, il contrario della fretta il contrario di giudicare.
Una capacità che mai come oggi è necessaria. E che potrebbe forse aiutarci a cambiare la realtà che ci sta intorno. Ma può davvero aiutarci la letteratura?
La letteratura è sempre stata un fiume minoritario, ma che può trascinare verso grandi lidi. Per fare questo lavoro bisogna imparare a concentrarsi su sé stessi e poi uscire da sé verso altre sensibilità. Riuscendo a coinvolgerle, portarle con sé, senza sapere bene sperando di dare un respiro, una prospettiva diversa. Penso a quando Primo Levi cita la Divina Commedia nel campo di Auschwitz, al poeta polacco Adam Zagajewski che dopo l’11 settembre 2011 scriveva “prova a cantare il mondo mutilato. ..…torna col pensiero al concerto, quando la musica esplose…… Canta il mondo mutilato e la piccola penna grigia persa dal tordo, e la luce delicata che erra, svanisce e ritorna”.
In apertura una statua dedicata a Giacomo Leopardi a Recanati
In tour: Paolo Di Paolo, scrittore, saggista e conduttore di Pagina tre su Radio 3 presenta il libro il 25 agosto a Sentieri e Pensieri, il festival letterario giunto alla sua tredicesima edizione, organizzato dal Comune di Santa Maria Maggiore, diretto da Bruno Gambarotta. E poi sarà presente a Pordenonelegge in più incontri a cominciare da quello di venerdì 19 settembre alle ore 14:30 dentro la Casa Circondariale di Pordenone, dal titolo “Che cosa si perde a non leggere”.





