"Leggere libri non serve" è il titolo provocatorio del nuovo, prezioso, libro dello scrittore, traduttore, docente universitario che esce il 3 settembre, eccone un estratto

Fu Paul Auster, tra i tanti, a domandarsi a cosa serva l’arte della scrittura in quello che siamo soliti chiamare “il mondo reale”. Affermò che i libri non sfamano certo i bambini, non fermano i proiettili, non impediscono alle bombe di uccidere i civili. Che sia davvero così lo si vede facilmente in tanti contesti bellici.

Lo scrittore americano Chris Hedges, ad esempio, in una lettera a Refaat Alareer, poeta palestinese e professore di letteratura, scritta dopo la sua morte (Alareer fu ucciso in un raid israeliano a nord di Gaza nel dicembre 2023), si domanda: “Perché gli assassini temono i poeti?”. Hedges ricorda all’amico scomparso che lui non era un combattente, che non portava armi con sé, ma che si limitava a scrivere parole su carta. Perché allora andarlo a stanare scientemente per ucciderlo? La risposta sconsolata che Hedges si dà è questa: quando nel mondo c’è troppa crudeltà e sofferenza, la poesia è “il triste lamento degli oppressi”. Considerazione desolante quanto vera, che mi ricorda quella forse un po’ più ottimista di un mio maestro, Declan Kiberd, secondo cui le parole sono “le uniche armi dei disarmati”.

Purtroppo, agli occhi degli oppressori, gli oppressi non devono avere né armi né parole. Non devono avere voce. Il loro grido è il silenzio. E ahimè, a volte capita che quel prezioso silenzio sia il nostro, più che il loro. È vero, come diceva Auster, che le poesie non fermano né i proiettili né le bombe. Ma io vorrei dire qualcosa di più. È altrettanto vero il contrario: a volte le poesie, le bombe e i proiettili li attirano; li guidano.

Possiamo girarci attorno ma il punto resta sempre quello, e riguarda il binomio utilità-inutilità legato alla parola letteraria. Soprattutto, concerne la questione se quel che è per definizione inutile come l’arte, serva. Un’arte serva non serve a nessuno, potremmo ribattere – continuando a giocare con le parole. Ma è poi davvero così? Infatti, a servire, spesso è proprio l’arte serva, non quella libera o liberata.

Servo o non servo, questo è il dilemma. Un dilemma singolare, ma non solo. Può essere anche plurale: servi o non servi? E per giunta non fa distinzioni di genere: serve o non serve? A dirla tutta, come si vede è una domanda ambigua dal punto di vista grammaticale, perché rimescola in un unico calderone sostantivi che sono verbi e verbi che sono sostantivi. E poi, è una questione intricata dal punto di vista filosofico, forse perché connessa alla nostra potenziale utilità nel mondo.

Possiamo infatti accontentarci, come esseri umani, di quel che ci porta principalmente vantaggi materiali? Possiamo ridurre quello che siamo, o quel che pensiamo di essere, a ciò che ci è utile in senso pratico e non curarci, o curarci meno, di tutto il resto? O, al contrario, è ancora possibile ipotizzare una preminenza nelle nostre vite di ciò che è invisibile, immaterico, intangibile? Possiamo, ad esempio, ritenere che un politico dotato di una discreta vita interiore (di per sé invisibile) sia in grado di agire meglio per il bene comune rispetto a chi questa profondità la dileggia e la calpesta giorno dopo giorno? Dobbiamo rassegnarci a considerare destinata al fallimento l’idea di un mondo governato anche da filosofi, artisti o poeti? Forse sì, forse no.

Ma allora, se leggere libri non serve a diventare potenti, a fare successo (e “c’è qualcosa di volgare nel successo,” diceva Oscar Wilde…), se leggere libri non serve a diventare ricchi e famosi e non serve neppure a farci sentire meglio o a essere felici, a cos’è che serve davvero? L’imprenditore di cui sopra dirà: leggere libri non serve e basta. Ergo, se io leggo libri, “io non servo”.

Attenzione, però. Dire “io non servo” non significa soltanto questo. Può anche indicare che di fronte a un comando, a un ordine, io posso sempre obiettare o disobbedire. Posso dire “io non servo”, ovvero “io non servirò”, “io non sarò un servitore”…

Da “Lezione 1: La profezia, ovvero Oscar Wilde”
Nella Ballata del carcere di Reading Oscar Wilde vergò quella che potremmo definire un’autoprofezia: “E lacrime straniere riempiranno per lui / l’urna della pietà da tempo infranta.” Oggi alla sua tomba – non più nel cimitero di Bagneux dove si trovava inizialmente (settima fila, diciassettesimo riquadro, undicesima tomba), ma a Père-Lachaise – si recano in tanti, tra cui molti stranieri in visita a Parigi. Ma al suo funerale, il 3 dicembre del 1900, erano presenti solo pochi amici e qualche giornalista. Secondo André Gide, dietro la bara economica c’erano sette persone, ma è probabile che ve ne fosse qualcuna in più. A trasportare il feretro fu un carro funebre malconcio con sopra impresso il numero tredici.

Anni dopo, il grande poeta portoghese Fernando Pessoa, che fu anche astrologo, come dimostrano migliaia di carte, lavorò molto sulle interpretazioni astrali della vita di Wilde. Cercò di individuare quali incroci tra i pianeti e il sole si fossero verificati in occasione degli eventi più importanti del suo percorso; e del grande irlandese stilò anche alcuni oroscopi. Pessoa era ossessionato da talune figure di letterati venuti prima di lui, come Dante, Shakespeare, Milton, Baudelaire e appunto Wilde, e studiava le loro mappe astrali quasi a voler provare tesi strane legate a trasmigrazioni. Con Shakespeare, ad esempio, probabilmente dovette accorgersi che, stando a una certa mappatura che utilizzava, la posizione del sole rispetto ai pianeti al momento della morte del drammaturgo corrispondeva esattamente a quella occupata dallo stesso astro nel giorno della sua nascita. Aveva condotto studi astrologici comparativi su Dante e Shakespeare, come per dimostrare che lo spirito dell’uno si fosse incarnato nell’altro.

Usava inoltre l’astrologia, Pessoa, per dar conto della vita e della morte dei suoi eteronimi, ossia delle persone, o maschere, a cui attribuiva le proprie poesie, tutte nate e morte in precisissime circostanze astrali. Tentava, infine, di predire anche il proprio futuro e calcolare la sua possibile data di morte. Fernando Pessoa sarebbe morto il 30 novembre del 1935. Oscar Wilde aveva lasciato il mondo il 30 novembre del 1900.

Wilde e Pessoa sono artisti della maschera, che vissero appieno la frizione neoplatonica dei contrari, ovvero la contraddizione che dà forza e significato alla vita. Wilde, in virtù di questi attriti, fu amato con passione e pure odiato con veemenza. Sfidò la morale del tempo e ne subì le conseguenze. “Chi vive più di una vita / più di una morte deve morire,” scrisse nella Ballata, ma poi ebbe in sorte di “sopravvivere” alla propria dipartita, forse solo grazie al coraggio con cui affrontò la condanna. Una condanna a due duri anni di lavori forzati per l’accusa di atti osceni gravi – reato che puniva i rapporti omosessuali tra uomini, anche se consensuali. Scontata la sentenza, fu costretto a fuggire all’estero in bancarotta, dimenticato dai tanti amici di un tempo e da una società che aveva assistito all’intera parabola della sua vita, dalla fama al dileggio fino all’ignominia.

Eppure ora, come suggerisce il biografo Richard Ellmann, noi “ereditiamo la sua battaglia mirata a realizzare finzioni supreme nell’arte, a legare l’arte al cambiamento sociale, a far incontrare l’impulso individuale e quello sociale, a salvaguardare quel che è eccentrico e peculiare da tentativi di standardizzazione ed epurazione, a rimpiazzare una morale improntata alla severità con una dettata dall’empatia”…

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LA MOSTRA In apertura, un’immagine di Euro Rotelli dedicata a Paul Auster. A Sacile (PN), la mostra New York, Paul Auster and me, un racconto fotografico di circa 90 immagini in bianco e nero che conduce il pubblico a perdersi tra le strade di Manhattan, senza itinerari prestabiliti: un invito a vivere la città più che a visitarla che trasforma la metropoli americana in un intreccio di letteratura e immagini. New York, Paul Auster and me è aperta a Sacile, a Palazzo Ragazzoni, da sabato 13 settembre fino al 5 ottobre, il progetto è a cura di Elena Cantori. Rotelli ha intrapreso questo percorso ispirandosi in particolare alla Trilogia di New York, dando forma visiva alle suggestioni dello scrittore recentemente scomparso.