E così il Ponte, da scorciatoia contabile, torna a essere quello che è: un gigantesco impegno di cassa senza marchio Nato. In soldoni, costa il doppio: perché l’Italia dovrà mettere i 13,5 miliardi sull’infrastruttura e, in aggiunta, trovare risorse vere per colmare il divario verso il 5% del Pil.

Toh, che sorpresa! La Nato vuole i soldi veri, niente finanza creativa. A Bled, il 2 settembre, l’ambasciatore Usa presso la Nato Matthew Whitaker ha gelato i contabili di Palazzo Chigi: l’obiettivo del 5% chiesto da Trump riguarda «specificamente la difesa e le spese correlate», non «ponti privi di valore strategico-militare» né scuole. Traduzione: stop a infilare il Ponte sullo Stretto nel capitolo Difesa per far quadrare i numeri. 

Per Meloni è un problema politico e contabile. Per mesi il governo ha ammiccato alla classificazione “strategica” dell’opera da 13,5 miliardi, arruolando il cantiere nella retorica della sicurezza nazionale e internazionale; Salvini ha parlato di «doppio uso», civile e militare, per spingere la pratica. Ora Washington risponde che la lista della spesa è fatta di truppe, mezzi, munizioni, e cyberdifesa. Il resto sono «stravaganti opere di ingegneria». 

E così il Ponte, da scorciatoia contabile, torna a essere quello che è: un gigantesco impegno di cassa senza marchio Nato. In soldoni, costa il doppio: perché l’Italia dovrà mettere i 13,5 miliardi sull’infrastruttura e, in aggiunta, trovare risorse vere per colmare il divario verso il 5% del Pil. Fine dell’alchimia. Inizia la responsabilità: dire agli italiani chi paga, con quali priorità e perché l’emergenza vera — salari, scuole reali, sanità — viene sempre dopo il giocattolo del «bambino Salvini».  Da Bled la smentita: la Nato vuole capacità reali, non slogan; i conti truccati non fanno deterrenza.

Buon mercoledì.