Martha C. Nussbaumha offerto strumenti di grande rilevanza per interpretare il nesso tra giustizia sociale e migrazioni

La questione dell’accoglienza, e in particolare la capacità di accogliere, si colloca al centro del dibattito sulla sicurezza sociale, poiché riflette sia la tenuta etica di una comunità sia la sua struttura materiale. Una società sicura è una società in grado di accogliere e integrare chi chiede di entrare in questa società. Una società sicura è l’opposto degli Stati Uniti attuali, per essere chiari, come dimostrano i dati sulla criminalità e sul disagio sociale nel Paese messi a sistema con lo scellerato discorso di Trump alle Nazioni Unite. Non essere accolti implica scontro e in ultima analisi rischio per la sicurezza interna alla società stessa.

Martha C. Nussbaum, una delle filosofe politiche più influenti degli ultimi decenni, ha offerto strumenti di grande rilevanza per interpretare il nesso tra giustizia sociale e migrazioni.

Attraverso il suo capabilities approach, sviluppato in dialogo con Amartya Sen, Nussbaum propone un modello di valutazione del benessere e dell’equità che va oltre il calcolo economico, ponendo l’accento sulle reali opportunità che gli individui hanno di condurre una vita dignitosa. La qualità stessa di sapere accogliere non è un handicap ma un aspetto che caratterizza l’essere umano. Chi è capace di aiuto a chi è in difficoltà è prettamente umano.

Applicato al fenomeno migratorio, questo approccio definito dalla Nussbaum non si limita a chiedere se i migranti abbiano accesso a risorse minime, ma indaga se essi dispongano delle capacità concrete per esercitare libertà, sviluppare talenti e partecipare alla vita comunitaria vivendo al riparo dall’insicurezza. Se si ottiene quest’ultimo snodo fondamentale, quello di vivere in un ambiente più sicuro si raggiunge in primis il risultato che chi viene accolto può disabituarsi dalle condizioni di insicurezza e ottenere un’esistenza più virtuosa e affine ad un modo di vita più sicuro. È un dato di fatto, scientifico, insomma che l’accesso alla sicurezza è foriero di sicurezza sociale e innesca pertanto un circolo virtuoso. Per attualizzare il discorso di Nussbaum è questo uno dei punti che spesso perdiamo di vista anche nella società europea: dare al migrante, in maniera consapevole, accesso alla sicurezza è un modo, alquanto veloce e tendenzialmente diretto, di porlo nelle condizioni di divenire “produttore” di sicurezza.

Il contributo teorico del capabilities approach, elaborato a partire dagli anni Novanta da Martha Nussbaum e dall’economista Amartya Sen non misura il benessere attraverso il Pil o altri indici economici aggregati, ma attraverso le reali capacità che gli individui hanno di vivere una vita che abbiano ragione di considerare piena e sicura. Questo, per quanto dimostrato sopra, non è solo per ragioni di carità pura e semplice, ma anche per il fatto che la libera espressione di una capacità umana non può che rafforzare l’umanità di un contesto sociale e quindi anche di un pensiero statale o nazionale in sé. Questo, è bene rammentarlo, avviene con buona pace della destra e della sua assenza di pensiero e cultura su questa e sulla stragrande parte delle questioni sociali.

Chi esprime la capacità di accogliere la esprime per etica e per umanità, chi non è capace di accogliere non lo è per ragioni economiche, ma anti economiche e brilla essenzialmente per carenza di umanità, questo è il concetto espresso in maniera brutale. Tuttavia, per evidenziare questo passaggio c’è bisogno anche di brutalità, dal momento che, si nota, l’Unione europea per prima pare aver del tutto obnubilato un concetto tanto semplice eppure tanto affine alla spina dorsale dei suoi valori e della sua “Costituzione economica”. L’accoglienza per Bruxelles è vissuta molto spesso come “problematica”, e questo lo dimostra il Patto del 2024.

Il Patto per l’immigrazione, pubblicato nel maggio 2024 elenca una serie di misure abbastanza rigorose per sistematizzare il flusso migratorio in entrata in Europa. L’ulteriore sforzo di uniformare è comprensibile, viste le iniziative decisamente forti (e illegali, secondo la Giustizia sia italiana che europea) di governi come quello italiano, con riferimento all’increscioso e dispendioso evento delle deportazioni arbitrarie in Albania. Tuttavia vi sono due principali falle nel Patto dell’Unione: la prima è che l’immigrazione è inquadrata e definita ancora una volta come una vera e propria problematica, la seconda è che il Patto conferisce molti più poteri ai singoli stati e molti meno all’Unione. Il Patto stesso infatti ammette la propria natura repressiva, poiché tre dei quattro pilastri sono rivolti alla limitazione del fenomeno migratorio (di per sé impossibile da arginare), ed uno solo è teso all’integrazione. 

Emerge anche, dal Patto, una grande autonomia riconosciuta agli stati per le forme di mitigazione degli effetti del fenomeno, ma non viene prevista una redistribuzione dei flussi. Quindi in realtà si lascia ai singoli stati grande arbitrio su come utilizzare le risorse dell’Unione in forme diverse dal ricollocamento ma «di pari valore», come afferma il costituzionalista Claudio Panzera. 

Insomma, da una parte il Patto non indirizza il fenomeno immigrazione ad una comprensione della sua realtà più inclusiva ed economica, la “capacità di accoglienza” che può essere trasformata in capacità di integrazione e quindi in un circolo virtuoso; dall’altra, di fatto, si abbandonano gli stati ad un ‘incertezza che non può che fomentare comportamenti divergenti e centrifughi.

La problematica non può essere considerata l’immigrazione in sé e deve essere considerata l’integrazione (da perseguire anche tramite una giustizia certa sul crimine, quando viene commesso). Gli effetti della mancanza di integrazione non possono essere frenati con strumenti repressivi solo come avviene in Italia, dove, mentre in Ministero degli Interni farnetica di rimpatri, molti dati sulla microcriminalità sono in decisivo aumento da quando questo governo si è accaparrato il potere, secondo il Rapporto del Censis.

Lo sforzo da fare è a priori, è un ripensamento deciso e una migliore comprensione del valore dell’accoglienza e della regolazione di un’integrazione indispensabile, giacché promotrice del circolo virtuoso di cui sopra.

In apertura, un murale di Riace in Calabria. Foto di Federico Tulli