L'Italia è un Paese industriale che produce poco sviluppo e, perciò, in ultima analisi, mediamente salari troppo bassi

Il 22 settembre l’Istat ha presentato la Contabilità nazionale per gli anni 2023 e 2024. I dati certificano che “nel 2024 il tasso di variazione del Pil in volume”, tasso che misura la crescita o la contrazione reale dell’economia, tenendo conto solo della quantità di beni e servizi prodotti senza l’influenza delle variazioni nei prezzi , “è stato pari a 0,7%, invariato rispetto alla stima del marzo scorso. Sulla base dei nuovi dati, nel 2023 il Pil in volume è aumentato dell’1,0%, con una revisione positiva di 0,3 punti percentuali rispetto alla stima di marzo”. Dopo queste rilevazioni e la revisione dei dati del 2023 (+1%), per il 2024, che si attesta al momento al +0,7%, si registra un -0,3% di crescita rispetto all’anno scorso.
Nel dettaglio le cose sono andate così, come enumera il comunicato stampa dell’Istituto: “il valore aggiunto in volume nel 2024 è aumentato del 2,0% nel settore dell’agricoltura, silvicoltura e pesca; dell’1,1% nelle costruzioni e dello 0,8% nel settore dei servizi, mentre è risultato stazionario nell’industria in senso stretto”.
Insomma, se alcuni settori crescono molto moderatamente, a tale avanzamento non contribuisce l’industria che, come abbiamo messo in evidenza molte volte, non cresce da oltre due anni. Anzi.
E poi, come siamo messi sul piano dell’indebitamento? L’Istat sancisce che “il rapporto tra indebitamento delle Amministrazioni pubbliche e Pil ha segnato un deciso miglioramento attestandosi a un -3,4%. Il saldo primario è tornato positivo, portandosi a +0,5% da un -3,5% del 2023”.
Ora, attenzione. Perché il dibattito pubblico si concentrerà sulla “buona e prudente amministrazione” attuata dal Governo Meloni nei suoi tre anni di storia. Sfumando forse su altre cifre certificate dall’Istat. Ad esempio, che “la pressione fiscale è cresciuta di oltre 1 punto percentuale, attestandosi sui valori registrati nel 2020-2021”.
Dunque, riassumendo, siamo un Paese – nonostante il Pnrr – dalla crescita lenta mentre, per esempio, quest’anno la Spagna crescerà intorno al 3% e, inoltre, abbiamo una pressione fiscale sempre più forte. E, certamente, è una buona notizia che il rendimento dei titoli di Stato, cioè il costo del debito pubblico, sia calato inducendo le agenzie di rating, come Fitch, ad assegnare un miglior punteggio al nostro Paese. Ricordandoci, però, che il rapporto tra debito pubblico italiano e Pil resta molto alto: 134,9%. Davvero pesante a confronto con quello di altri Paesi come Francia (116%), Germania (64%) e con una media dell’Unione Europea dell’87,4%.
Fossimo un condominio, potremmo dire di essere amministrati abbastanza bene. Ma siamo un Paese. Un Paese industriale, per la precisione, nel quale l’industria non cresce.
L’occupazione, fino a poco tempo fa è aumentata, anche se gli ultimi dati ci dicono che ora rallenta anche nel terziario, nel quale negli anni passati cresceva in modo abbastanza costante. E ricordiamo, ancora una volta, che l’industria – tra le altre cose – è il settore che offre le condizioni contrattuali e salariali di maggiore qualità.
Inoltre, la produttività resta un problema irrisolto di sistema. Negli ultimi 20 anni la produttività della Germania è cresciuta del 30%. Quella della Francia del 26. In Italia ci fermiamo a 4 punti. In altre parole, con lo stesso numero di ore lavorate, in Italia si genera un valore economico molto inferiore rispetto a quei Paesi. Con le ovvie conseguenze anche sui redditi da lavoro.
Non siamo un condominio. Siamo un Paese industriale che produce poco sviluppo e, perciò, in ultima analisi, mediamente salari troppo bassi. La prudente gestione del debito va bene, resta una buona notizia. Ma da inquadrare in uno scenario complessivamente poco positivo del quale il Governo Meloni pare proprio non voglia tener conto.

L’autore: Cesare Damiano, già sindacalista e parlamentare in tre legislature, è stato ministro del Lavoro ed è presidente dell’associazione Lavoro & Welfare

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