Ancora una volta, Matteo Salvini ha scelto la strada sbagliata. Dopo il fermo della Global Sumud Flotilla in acque internazionali, i sindacati hanno proclamato uno sciopero generale. La risposta del ministro? Minacciare la precettazione. Un riflesso condizionato, che ignora la legge, la Commissione di garanzia e persino i precedenti giudiziari che hanno già bollato come abuso le sue ordinanze.
La legge 146 del 1990 prevede eccezioni precise al preavviso: in caso di gravi eventi lesivi della sicurezza, i lavoratori possono scioperare senza attendere i dieci giorni. Ed è difficile negare che un attacco a una missione civile italiana in mare, senza che il governo abbia mosso un dito per tutelare i suoi cittadini, non rientri in quella fattispecie. Non solo: lo sciopero del 3 ottobre era già stato regolarmente proclamato dal S.I. Cobas, con i tempi corretti, e dunque perfettamente legittimo.
Salvini però insiste. E non è la prima volta. Negli ultimi anni ha usato la precettazione come manganello politico, dimenticando che dovrebbe essere un rimedio eccezionale, da applicare solo in presenza di un pericolo imminente per i diritti fondamentali. Lo ha detto anche il Tar del Lazio, sospendendo una sua ordinanza e certificando l’abuso.
Lo sciopero non è un capriccio né un fastidio da contenere: è il sale della democrazia, il contropotere che obbliga chi governa a rispondere. Ridurlo a cavillo procedurale significa disprezzare la sua funzione. Se oggi i lavoratori scendono in piazza, è perché avvertono l’assenza di un governo capace di difendere i diritti. E se Salvini vuole davvero meno scioperi, la soluzione non è la precettazione: è la politica.
Buon giovedì.




