Il 3 ottobre è una data che segna uno spartiacque. Nell’ottobre 2013 al largo di Lampedusa, 368 persone che tentavano di raggiungere l’isola, persero la vita. All’indomani di quel tragico naufragio che non fu una fatalità, e mentre continua la criminalizzazione del lavoro di salvataggio delle ong, ecco un racconto dal vivo delle conseguenze del fermo che Mediterranea sta ancora sta subendo
Salire su Mediterranea significa sbattere contro tutte le contraddizioni di una politica che ha deciso di rappresentare come criminali delle persone che salvano altre persone, con il solo scopo di tenere queste ultime più lontane possibile dal nostro mondo di privilegiati: europei, bianchi, cattolici. Un mondo dove i diritti ci sono stati concessi quasi per caso, per il solo fatto di essere nati dalla parte giusta del Mediterraneo. Che se fossimo nati 200 miglia più in là, i nemici saremmo stati noi. Mediterranea è un posto dove la coscienza, la memoria che si tenta di desertificare e l’impegno diventano un luogo ed una comunità.
La nave Ong è in fermo amministrativo dal 23 agosto, multata per 10mila euro in applicazione del decreto legge Piantedosi. Rea di non aver attraccato a Genova ma a Trapani, per risparmiare 4 giorni di navigazione a 21 migranti soccorsi in mare in condizioni spaventose.La nave è all’ancora, che resiste, a pochi metri dalla Mare Ionio e dallo scafo arrugginito della Iuventa.
Sullo sfondo, una Trapani di luce e lutti: città di accoglienza ma anche capace di negare la cittadinanza onoraria alle Ong e di ospitare un Cpr dove troppo spesso “si fa la corda”.
Guardare Mediterranea con una visione del problema migratorio che parte dalle norme, dai decreti, fa perdere di vista le persone.
Le cui storie abbattono i confini fatti della stessa materia dei sogni, ci fanno sentire più fragili, vulnerabili a quel racconto che non può che cambiarci.Perché il mare è un non luogo, la traversata ed il rescue è un attimo, la salvezza è il futuro che si apre oltre i porti di sbarco. Sheila ha un tatuaggio sul braccio destro, dei numeri in sequenza: sono le coordinate delle rotte delle missioni di salvataggio nel Mediterraneo Centrale cui ha partecipato in questi anni. É incazzata con un mondo che vorrebbe scuotere forte, appollaiata su una sedia sgarrupata come il suo animo: negli ultimi due giorni, al largo delle coste di Tobruk e di quelle tunisine, ci sono stati due grossi naufragi con decine e decine di vittime, che loro avrebbero potuto salvare. Lei si è sempre occupata di persone: a 18 anni con Emergency, gli ambulatori di Palermo, che la avvicinano alla storia delle persone in movimento. Poi, una telefonata da un amico palermitano di Arci “Porco Rosso”: “Torna, stiamo comprando una nave”.
Era il 2018 e la prima missione della Mare Ionio fu preparata in maniera semiclandestina nel porto di Augusta.
Sheila è come Mr. Wolf: risolve problemi, aiuta a trovare delle strategie per restare il più possibile in mare. Come quando, con Mare Ionio ferma, le missioni sono continuate con la Safira, di due amici trapanesi.
Nel 2018 c’era anche Beppe Caccia, oggi capo missione di Mediterranea, una vita di militanza movimentista, anche a livello europeo.
É lui che si è assunto la responsabilità delle scelte della notte del 23 agosto: “Prima di tutto, si obbedisce alla legge del mare, alla Costituzione italiana e alle leggi dell’umanità”, dice Beppe. Aldo Ciani, romano, era un ristoratore. Conosce Mediterranea Saving Humans, seguendo la vicenda della Maersk Etienne, bloccata in mare con ventisette migranti a bordo, durante il lockdown. Entra come volontario nell’“equipaggio di terra”, partecipa a iniziative come i safe passage dall’Ucraina.
Nel maggio 2025 viene acquistata Mediterranea, più grande e funzionale della Mare Ionio, ed ora servono anche gli equipaggi di terra: Aldo cura la cambusa e cucina, ogni ruolo è essenziale in questa operosa fabbrica solidale. La nave Mediterranea è il risultato di un sogno parecchio agitato di Luca Casarini condiviso con Beppe Caccia: un rilancio forte sia sul piano dell’impegno e, soprattutto, una risposta alle politiche istituzionali che vogliono che nessuno guardi, nessuno veda, nessuno racconti quello che succede al di là del Mediterraneo.
É un’ingiustizia umana intollerabile dover salvare, di notte, un bambino di venti giorni e che le navi soccorso siano “punite” per aver salvato vite e da questo possano scaturire altre morti. Sheila non può pensare che “ci siano politici, ministri, sottosegretari che siedano intorno ad un tavolo e non capiscano quali siano gli effetti dei loro decreti, delle loro norme. Che non capiscano che il “reato di salvezza” non ha un senso logico”. Perché ogni salvataggio porta grandi felicità: vite annegate che passano dalla paura di morire alla gioia di essere salvi.Come quella dei due fratelli, partiti su barche diverse e convinti di essersi persi per sempre, che si ritrovano in un abbraccio sul ponte. A ciascuna delle centinaia di persone incrociate, Sheila avrebbe voluto dire loro non ti preoccupare, andrà tutto bene, potrai rivedere i tuoi genitori, in Italia sarai accolto, la tua vita sarà bellissima.
Invece ogni volta li guarda e l’unica cosa che riesce a dirgli è “vuoi del tè caldo?” Una vita migliore non è in grado di promettergliela, perché da quel momento li attende un altro calvario, anticipato dai troppi militari in tenuta antisommossa al momento dello sbarco nei porti italiani. Nel maggio 2019, Beppe era sulla Mare Ionio in zona SAR libica.
Dopo una segnalazione di Alarm Phone avvistarono un piccolo gommone grigio, invisibile ai radar e privo di telefono satellitare. Un potenziale “naufragio fantasma”.
A bordo c’erano 50 persone, tra cui una coppia sud sudanese con una bambina nata nei campi libici e la madre incinta. Oggi vivono in Francia, hanno una famiglia numerosa e lavorano: “Dopo questo, non puoi più smettere di salvare vite”, racconta Beppe. Lui ha visto molti orrori: le fosse comuni in Bosnia durante la guerra; a Ramallah, nel 2002, quando ha aiutato a trasformare il parcheggio dell’ospedale in una fossa comune, perché i morti di quella seconda intifada non entravano più nelle celle mortuarie. Ma la sproporzione tra la realtà che si vive in mare, la propaganda che viene fatta sull’immigrazione e sul soccorso nel Mediterraneo lo ferisce persino di più. Fare parte della Civil Fleet che pattuglia il Mediterraneo pone davanti a scelte continue. Scegliere ogni giorno come non diventare complici di una politica orrenda è la sfida più grande: rispettare il “codice Minniti” o disobbedire per salvare vite rischiando multe e sequestri.
Scegliere ogni giorno di restare umani. Ma poi ci sono loro, i salvati, che ballano sul ponte felici di essere vivi, che ti dicono che sei la prima persona bianca di cui non hanno paura. Ci sono i bambini che disegnano le navi italiane coi cuoricini e i fiori, con gli arcobaleni colorati. Sono loro che ti salvano, anche se Sheila, oggi, si sente sommersa: non è il suo primo fermo, nemmeno la sua prima missione, e se non ha mai recuperato cadaveri, i fantasmi che vengono su dal mare le siedono accanto, le posano una mano sulla spalla. E forse sono loro a dirle che andrà tutto bene, non ha bisogno di un thè caldo.
Andrà tutto bene perché non si sono voltati dall’altra parte, perché Beppe vuole poter guardare in faccia i propri figli e dire che ha fatto qualcosa: si sente egoista a questa motivazione, ma forse è semplicemente un Uomo che riconosce uomini in quello che, per parte dell’Occidente, è solo un “carico”. Sheila, Aldo e Beppe fanno parte di “un esercito nato per sciogliersi”, ma solo quando questa crisi umanitaria, che dura ormai da 30 anni, sarà risolta aprendo canali sicuri e legali di libera circolazione. Scendo da Mediterranea, l’intervista è conclusa: sfioro il passamano, sperando che ci sia un po’ di salvezza anche per me.
L’autrice: Valentina Colli è archeologa e componente dell’Udi Trapani









