“Per essere giusta, cioè per avere la sua ragion d’essere, la critica deve essere parziale, appassionata, politica. Fatta dunque da un punto di vista esclusivo, ma tale da aprire il più vasto orizzonte”. Lo proclamava Charles Baudelaire a proposito del Salon di Parigi del 1846. Il poeta parlava di critica d’arte: ma la solidarietà fra impegno, schieramento e ampiezza degli orizzonti si addice non solo ad ogni lavoro intellettuale, ma alla missione stessa dell’intellettuale, e alla sua onestà.
Con questo spirito ho fatto qualcosa che avevo quasi tenacemente evitato di fare, e cioè candidarmi ad amministrare la cosa pubblica. Siccome faccio lo storico dell’arte, ho sempre pensato che il mio mestiere, pur intriso di valore politico, fosse diverso da quello del politico praticante, ossia dell’uomo di governo e di amministrazione. Il ruolo dell’intellettuale è anzi quello di rappresentare la coscienza critica della politica come della società civile, di cui egli è parte necessaria. E anche di formare la classe dirigente: specie quando, come nel mio caso, è un docente universitario.
Ci sono tuttavia dei frangenti in cui mettersi in gioco significa dare una risposta, operativa e culturale al tempo stesso, a una sfiducia nella politica espressa da una terribile crisi di rappresentanza. A una politica autoreferenziale, sempre più scadente e sempre più lontana dalle forze vive dalla società, fanno da contrappasso la fuga dei cittadini dalle urne ma anche l’impressionante mobilitazione delle piazze, culminata nei cortei in nome di Gaza, di cui è impregnata l’aria mentre scrivo.
Segno che c’è un’Italia nettamente migliore di chi pretende di rappresentarla. E che costoro dispongono di strumenti culturali inadeguati per amministrare un condominio, figuriamoci per interpretare i grandi percorsi storici che attraversano i sentimenti popolari come le crisi internazionali. Se la politica ha smesso di ascoltare gli intellettuali, e anzi ha preso a deriderli e denigrarli, forse è il caso che gli intellettuali si schierino in maniera più decisa di quanto finora non abbiano fatto. Senza tradire la loro natura, ma anzi irrobustendola con nuove occasioni di contatto con la società civile, nutrite da spirito di servizio e senso delle istituzioni.
Sbottonarsi fa bene, insomma: basta essere coscienti che sotto non abbiamo il costume di Superman, ma una scorza di umanità alimentata da una lunga coltivazione della conoscenza. Mi sono candidato consigliere alla Regione Toscana (si vota il 12 e il 13 ottobre), nella coalizione che sostiene la candidatura a presidente di Antonella Bundu: si chiama Toscana Rossa e la compongono Possibile, Potere al Popolo e Rifondazione Comunista. Si propone come alternativa sia al centrodestra (candidato Alessandro Tomasi), sia a un centrosinistra dal campo molto largo che rilancia la presidenza di Eugenio Giani.
La mia scelta è motivata sia da ragioni di principio, sia dalla specificità del contesto toscano, un laboratorio cui il resto del Paese dovrebbe guardare con maggiore attenzione. Per questo credo che qualche riflessione in merito possa interessare a un pubblico più largo dei soli elettori toscani (altrimenti starei a parlare solo del mio ombelico, come fanno i politici da social). Toscana Rossa può sembrare un progetto identitario: ma è soprattutto un tentativo di chiedere fiducia a chi crede ancora in una politica condivisa, costruita dal basso con spirito di ascolto e di inclusione, capace di contrapporsi a scelte calate dall’alto che favoriscono solo ristretti gruppi di potere. Aggregarsi e dialogare è qualcosa che dovrebbe stare nel midollo spinale di ogni anima di sinistra. Perché significa riconnettere la politica alla polis, nel senso aristotelico del termine. Rimettere i diritti al centro del discorso politico. E riconoscere che non c’è villaggio che possa ignorare il mondo.
Stiamo assistendo a clamorose erosioni del diritto internazionale, sostituito dalla prevaricazione del più forte o del più bullo. Ma lo smantellamento di questi diritti esplode ora semplicemente perché è in corso da diversi anni, come dimostra la politica repressiva messa in atto nel Mediterraneo contro ong e migranti da governi italiani sia di destra che di sinistra (per tacere dei nostri rapporti con la Libia). Se subordiniamo i diritti umani a una ragion di stato mai realmente argomentata, o riteniamo che i diritti siano un freno allo sviluppo (quando i diritti riguardano i lavoratori), abbiamo compiuto due passi decisivi verso il trionfo di ogni prepotenza e la fine della civiltà.
Per ripristinare il diritto chi ricopre incarichi di governo deve saper passare dal gesto simbolico, pur fortissimo, a pressioni di altra concretezza. Non ha senso approvare mozioni contro lo sterminio dei Palestinesi se il console onorario di uno stato che ammazza bambini a migliaia rimane tetragono alla guida di una fondazione che i bambini li cura: l’Ospedale Meyer di Firenze. Ma proprio il fatto che la politica locale sia impotente davanti alla possibilità di cacciare Marco Carrai (o anche solo di discuterne seriamente e pubblicamente) evidenzia non poche difficoltà operative che un campo aperto a sinistra deve saper affrontare. Carrai, amico storico di Matteo Renzi, è al centro di una rete di imprenditori, grandi elettori, politici che rendono complicata, per chi amministra Comune o Regione, una decisione drastica.
Guarda caso, Renzi è uno dei grandi elettori di Giani, che pure ha definito Netanyahu un criminale di guerra. E lavora per la fondazione di Tony Blair, che rischiamo di veder governare Gaza, secondo il piano di Trump. La classe dirigente della Toscana, che rischia di venire confermata, non è all’altezza di governare la Toscana perché deferente nei riguardi di quei poteri e di quegli investitori e fautrice di una politica neoliberista che vira a destra. Ecco perché al di là dei proclami certe cose non si vogliono fare. Ma una proposta forte a sinistra dovrebbe riaffermare un sistema valoriale per cui invece queste cose non solo si possono, ma si devono fare.

Da un lato Giani ha negato che l’overtourism esista, dall’altro Firenze perde residenti nel centro e respinge anche chi vi si potrebbe trasferire per lavorare, visto che il costo degli alloggi (e della vita) è diventato insostenibile. Ma Giani crede che un fattore di sviluppo sia rappresentato da una nuova e più lunga pista dell’aeroporto di Peretola, che renderebbe ancor più precario il rischio idrogeologico della piana, mangiandosi una bella fetta di un parco agricolo progettato per impulso regionale, ma che ancora la Regione non ha istituito.
La tendenza fiorentina sta contagiando altre città della Toscana, mentre il consumo di suolo non si ferma e le energie rinnovabili stentano a farsi strada. A una promozione monodirezionale di turismo e immobiliarismo ha corrisposto una crisi dell’industria e di quell’artigianato che era un tempo eccellenza nazionale. Fa rabbrividire che tutto ciò accada proprio in Toscana, una regione il cui strepitoso patrimonio dovrebbe suggerire ben altre strategie. Ma ci vogliono gli strumenti per interrogarlo e comprenderlo.
La vera risorsa del futuro è proprio la cultura, che davvero può riempire una quota di mercato, giacché la classe politica italiana del momento brilla per non averne, visto che intellettuali e scienziati sono per lei ingombranti. Nella stessa Firenze, sembra che ogni decisione sul futuro della città venga presa come se la sua università non esistesse. Ma con un occhio di riguardo alle università straniere che procurano legioni di studenti-consumatori.
Anche qui si tratta di diritti: Firenze è divenuta una città che non garantisce il diritto allo studio. Lavorare sulla cultura potrebbe invece valorizzare il carattere propositivo dell’aggregazione, generare anticorpi, superare la fase antagonista. Non basta essere contro i genocidi, i fascismi o il turismo. Bisogna proporre una visione che gli altri non hanno. Ottocento lavoratrici e lavoratori del ministero della Cultura hanno chiesto un maggiore impegno pubblico in difesa di Gaza. Il passaggio cruciale è quello in cui i firmatari dichiarano di essere “percepiti come burocrati o custodi di una bellezza astratta e fuori dal tempo, quando non intrattenitori di un pubblico di visitatori o turisti”.
Ma musei e biblioteche sono “laboratori di riflessione sulle dinamiche della storia e sulla realtà contemporanea”. Se visitassero qualche museo o leggessero cose diverse dai loro stessi sgrammaticati post, certi opinionisti da social non potrebbero neppur concepire gli insulti razzisti e sessisti riversati a valanga sulla nostra candidata presidente, da quando è scesa in campo, ogni volta che appare o dice qualcosa: perché Antonella Bundu è di sinistra, non da ora impegnata a difesa dei diritti, ma soprattutto donna e italiana afrodiscendente. Dunque una figura straordinariamente moderna, ma difficile da accettare nella regredita Italia del 2025.
Persino in una Toscana che fu tanto all’avanguardia nella tutela dei diritti umani da abolire la pena di morte, prima al mondo. In questo clima di odio (che incredibilmente la nostra presidente del Consiglio attribuisce in toto alla “sinistra”), persino tentare un ragionamento diventa complicato. Se aggiungiamo che nel mese di agosto abbiamo dovuto raccogliere più di diecimila firme per competere (visto che nessuno dei tre partiti della coalizione era in Consiglio Regionale), e che la campagna è totalmente finanziata dal basso con mezzi esigui, molto volontariato e molto entusiasmo, si capisce che Toscana Rossa è come un peso piuma che combatte contro due pesi massimi con le mani legate. Ma in fondo neanche Golia era invincibile.

L’autore: Fulvio Cervini è docente di storia dell’arte medievale all’università di Firenze, è iscritto a Possibile ed è candidato alle elezioni regionali del 12 e 13 ottobre per Toscana rossa








