“Le porte di Gaza” del giornalista e inviato del giornale israeliano Haaretz, Amir Tibon è una testimonianza vissuta in prima persona, dal 7 ottobre 2023. Esce il 10 ottobre edito da Orizzonte Milton, con una importante prefazione di Anna Foa, eccola in anteprima:
Questo libro apre una breccia nel clima di odio e contrapposizione che sempre maggiormente segna l’opinione pubblica italiana sulla questione mediorientale. Infatti chi ricorda con orrore il terribile attacco di Hamas del 7 ottobre ha spesso finito in questi due anni per negare o almeno gravemente sottovalutare l’orrore degli oltre sessantamila palestinesi uccisi da Israele a Gaza, in maggioranza civili, definendolo come una legittima reazione, sia pur sproporzionata, all’attacco di Hamas.
E il 7 ottobre? ci si sente chiedere ogni volta che si parla di ciò che ormai tante voci di giuristi, storici, politici definiscono ‘genocidio’. Dall’altra parte la memoria del 7 ottobre è stata offuscata e anche rimossa da molti di coloro che si sono impegnati a mettere in luce i terribili eventi di Gaza, la distruzione ormai quasi totale della Striscia. Senza contare, da entrambe le parti, gli estremisti che negano i crimini dell’esercito israeliano a Gaza attribuendoli alla propaganda di Hamas o quelli invece che rifiutano di condannare la mattanza del 7 ottobre considerandola una forma legittima di resistenza.
In Israele, la memoria del 7 ottobre è ancora una ferita aperta, tenuta viva e sanguinante dalla questione degli ostaggi e dalle battaglie quotidiane portate avanti senza sosta da due anni dalle loro famiglie. Ma altrove, dove naturalmente la sorte degli ostaggi ha un peso minore, la memoria del 7 ottobre sta sempre più diventando patrimonio di quanti la usano polemicamente, se non strumentalmente, per appoggiare in maniera più o meno esplicita il governo di Netanyahu. Il libro di Amir Tibon ci aiuta ad uscire da questa contrapposizione, frutto anche dell’ignoranza della situazione in Israele, delle centinaia di migliaia di israeliani che manifestano nelle strade delle sue città. Per gli uni, sono fautori di Hamas, come proclama il governo. Per gli altri, non sono tanto diversi dai sostenitori di Netanyahu, e inoltre sono pochi e ininfluenti. Tibon è un giornalista di Haaretz, il giornale più importante di opposizione al governo della destra al governo in Israele, avversato e costantemente minacciato da Netanyahu, una voce libera e indipendente.
Amir Tibon vive dal 2014 con la sua famiglia in un kibbutz sulla linea di confine con Gaza, il più vicino alla Striscia e uno dei kibbutzim distrutti nell’attacco terroristico del 7 ottobre, Nahal Oz. Tibon ben rappresenta quindi, nel suo racconto e nelle sue parole, la percezione e la sensibilità di quegli israeliani laici e di sinistra che considerano i palestinesi come loro simili e ne sostengono i diritti, ma che hanno subito direttamente, sulla loro pelle, le conseguenze terribili del continuo degenerare della situazione. Quelli che hanno manifestato per tutto il 2023 contro la riforma giudiziaria voluta da Netanyahu, pur sottovalutando, forse, il ruolo e l’importanza che nelle degenerazioni della democrazia in Israele aveva avuto dopo il 1967 l’occupazione, l’‘elefante nella stanza’, come è stata chiamata.
All’alba del 7 ottobre, Tibon è nel suo kibbutz e viene svegliato non dall’allarme delle sirene che segnalano l’arrivo di razzi o missili, rumore a cui gli abitanti del kibbutz sono abituati, ma da colpi di mortaio. Chiusosi con la moglie e le due bambine piccole nella stanza di sicurezza, la stanza blindata presente nel kibbutz in tutte le case, si rende poco a poco conto che ciò che stava succedendo era diverso da quanto era abituato a vedere, che i terroristi erano dentro il kibbutz, e che nessuno sembrava poter venire subito in loro soccorso. Ed è suo padre, Noam Tibon, un generale in pensione che vive a Tel Aviv, che si mette in macchina e guidando fra mille pericoli e in un territorio disseminato di morti, li porta in salvo, un episodio divenuto famoso in tutta Israele. La sua famiglia è salva ma 13 membri del kibbutz sono morti e 6, di cui due ancora prigionieri, sono stati rapiti dai terroristi.
Questa vicenda, che Tibon narra con sobrietà, senza indulgere a descriverne le modalità più atroci, pur lasciandoci intendere la immane portata della violenza scatenatasi, è narrata nel libro, intrecciandosi alla storia del kibbutz e alla storia dello Stato, della sua costruzione, delle trasformazioni che lo hanno segnato dal 1948 ai nostri giorni.
Il kibbutz Nahal Oz nasce nel 1951 come un presidio militare vicino al confine con Gaza, per poi diventare nel 1953 un insediamento civile, anche se la vicinanza con la frontiera lo rende militarmente significativo. Nel libro Tibon chiarisce con nettezza la differenza fra i kibbutzim, anche quelli di frontiera, e le colonie: gli uni nati per proteggere i confini, le altre, quelle dei sionisti religiosi, per annullare i confini e estendere Israele nella prospettiva della grande Israele.
Tibon vi si trasferisce nel 2014, in anni di continue ostilità e guerre tra Israele e Hamas. Era stato colpito sia dalla bellezza del luogo sia anche dal fatto di trovarvi persone che, anche in circostanze di conflitto armato, continuavano a professarsi favorevoli alla pace con i palestinesi e a non considerarli nemici. Uno stato d’animo che ritroviamo espresso dall’ autore di questo libro, anche dopo quel 7 ottobre che lo ha visto personalmente coinvolto, ma che in molti altri è stato messo tuttavia a dura prova da quegli eventi.
Oggi, il kibbutz è ancora distrutto, molti dei suoi abitanti, soprattutto quelli con bambini, non sono ancora tornati e aspettano la fine della guerra prima di poter ritornare a casa. Ma nelle pagine di Tibon non manca di affiorare una forte nostalgia per la vita che vi ha condotto. Che è anche nostalgia per quel mondo perduto, e non solo a causa del 7 ottobre.
Il libro racconta così, in un’ottica laica e aperta ad un’immagine di coesistenza con i palestinesi, la storia del Paese, le sue trasformazioni. Questa storia è attraversata da una parte dall’immagine del kibbutz, dall’altra da quella della sua distruzione. E il libro vuole anche, a due anni di distanza da quel 7 ottobre, e semplicemente raccontando, rispondere ad una domanda fondamentale: quanto quella distruzione, ma anche l’immane massacro di palestinesi che l’ha seguita, nella maggior parte non terroristi di Hamas ma civili innocenti, hanno reso per sempre impossibile la continuazione di quell’età di apertura, nonostante tutti i conflitti e le lacerazioni del Paese?
E forse la risposta è nelle ultime righe del suo libro, quando ricorda le parole di Moshé Dayan pronunciate al kibbutz nel 1956, che prospettavano la guerra coi palestinesi come inevitabile, un futuro che gli abitanti del kibbutz non volevano accettare. Le porte di Gaza, quelle alla cui guardia stava Nahal Oz, «gravano ancora sul nostro paese. Ma il peso di quelle porte non grava solo sulle nostre spalle… Negli anni a venire graverà sui nostri animi». Una conclusione che chiude ogni speranza, o invece che apre ad una possibile rigenerazione?
L’autrice: Anna Foa, intellettuale, scrittrice, vincitrice del Premio Strega 2025, con il libro “Il suicidio di Israele” (Laterza)
In apertura, immagine della scrittrice dalla pagina del Premio Strega





