La povertà alimentare non è un problema individuale da risolvere con la carità, ma una questione sociale che riguarda diritti, giustizia e uguaglianza

In Italia parlare di povertà alimentare significa descrivere una condizione ormai strutturale, che attraversa il Paese in modo silenzioso e diseguale che riguarda un numero crescente di persone e famiglie che faticano a garantire continuità, qualità e dignità alla propria alimentazione. Nel 2023 l’11,8% della popolazione sopra i sedici anni – quasi 6 milioni di persone – era in condizione di deprivazione alimentare materiale o sociale, cioè non riusciva, per ragioni economiche, a permettersi un pasto con carne, pesce o un equivalente proteico ogni due giorni (deprivazione materiale) e/o a condividere almeno un pasto al mese con amici o familiari (deprivazione sociale). Si tratta in larga parte di persone che non rientrano nelle soglie ufficiali di povertà assoluta o relativa dell’Istat e che quindi restano invisibili alle politiche pubbliche, pur vivendo una vulnerabilità alimentare concreta e quotidiana. Non parliamo di “fame” in senso stretto. Povertà alimentare, in Paesi ricchi come il nostro, non significa necessariamente non avere abbastanza cibo: è una condizione che limita la possibilità di scegliere cosa, quanto, come e con chi mangiare. Costringe a farsi guidare dal prezzo più che dalle proprie preferenze, a rinunciare alla qualità e alla varietà, a ridurre porzioni e a evitare momenti conviviali, per l’imbarazzo o la vergogna di dover ammettere di non poterselo permettere.
Si tratta di una progressiva compressione della libertà di scelta legata al cibo, che incide su dignità e autonomia, e che è il risultato di dinamiche economiche e sociali: salari bassi, lavori precari e redditi insufficienti, a cui si aggiungono disuguaglianze abitative, territoriali, sociali e di genere. Le conseguenze non sono solo materiali ma anche psicologiche e relazionali: stress costante nella gestione del bilancio familiare, perdita di autonomia, isolamento e stigmatizzazione. La povertà alimentare non è solo una condizione di bisogno: è una violazione di un diritto umano fondamentale, quello ad un cibo adeguato.
La povertà alimentare non si manifesta in modo uniforme, ma assume caratteristiche diverse a seconda dei contesti sociali e delle fasi della vita. Per gli adolescenti l’impatto può essere ancora più profondo, poiché sono soprattutto le dimensioni sociale ed emotiva a essere coinvolte, in una fase della vita in cui la costruzione dell’identità si intreccia con il bisogno di autonomia, appartenenza e riconoscimento. Che si tratti di mancanza effettiva di cibo o di limitazioni nelle esperienze di vita ad esso legate, diversi studi hanno dimostrato che negli adolescenti non è solo il corpo, ma anche la mente a risentirne, con effetti a breve e lungo temine sul piano fisico, cognitivo ed emotivo.
Nel secondo rapporto su adolescenti e povertà alimentare in Italia dal titolo “Il malessere invisibile di non poter scegliere”, realizzato da ActionAid insieme all’Università degli Studi di Milano e Percorsi di Secondo Welfare nell’ambito del progetto DisPARI, raccontiamo proprio di come l’esperienza della povertà alimentare sia strettamente connessa agli aspetti emozionali, sociali e questi, a loro volta legati alla libertà di scelta. Il cibo occupa un posto centrale nella vita degli adolescenti, talvolta come un’assenza che pesa altre volte come un dono che unisce, ma sempre elemento legato alle relazioni, ai gesti di cura e alle attenzioni reciproche.
I risultati mettono in evidenza quanto la socialità sia centrale per gli adolescenti — sia nelle relazioni con i pari che all’interno della famiglia — e come il cibo non rappresenti soltanto nutrimento, ma un vero e proprio linguaggio sociale. Il cibo racconta condizioni materiali (abbondanza o mancanza), ruoli familiari (i sacrifici dei genitori, il sostegno dei nonni, le responsabilità dei figli) e diventa strumento di relazione, dentro e fuori casa. Tra pasti condivisi e rinunce silenziose, il cibo misura le possibilità economiche, rafforza i legami, segna confini generazionali e alimenta forme di solidarietà tra pari. È un coro di voci quello che, attraverso il loro racconto, restituisce la quotidianità dei ragazzi, delle ragazze e delle loro famiglie: esperienze diverse, ma unite da un filo comune — la presenza del denaro o, meglio, della sua scarsità, come limite costante alle possibilità delle scelte quotidiane, soprattutto quando si parla di cibo. Dalle loro parole emergono rinunce, adattamenti e piccoli gesti che raccontano cosa significhi crescere in una famiglia in bilico tra stabilità e difficoltà economiche. C’è chi parla del desiderio di un piatto che appare quasi un lusso – il sushi, mai assaggiato quanto si vorrebbe perché “non ci sono soldi” – o della carne, che arriva di rado e lascia la sensazione che qualcosa, nella dieta quotidiana, resti incompleto. Dietro ognuno di questi racconti si intravede un equilibrio fragile, sospeso tra adattamento e desiderio, tra rassegnazione e voglia di riscatto. Pasta, tonno e salsa di pomodoro rappresentano certezze di stabilità così come sfizi, merendine e piatti “più ricchi” restano desideri, molte volte inespressi. E i ragazzi e le ragazze, che osservano con attenzione, imparano presto a leggere negli scaffali del supermercato e nel frigorifero di casa i segni della fatica, ma anche quelli della cura che li circonda.
Ciò che spesso manca non è soltanto il cibo in sé, ma – come un ritornello che attraversa i loro racconti – la libertà di scegliere.
C’è ancora molto da capire su quanto profondo sia il malessere o disagio che ragazze e ragazzi provano quando viene limitata la loro libertà di scegliere cosa, quanto, come e con chi mangiare, una libertà che la psicoterapeuta Cecilia Iannaco ha definito un «diritto psichico legato alla socialità». Ogni volta che tale libertà è limitata, si genera malessere, a prescindere dalla maniera matura e responsabile con cui essi/e affrontano la situazione.
Di fronte a questo quadro, serve interrogarsi sull’efficacia delle risposte attuali e se gli interventi siano in grado di affrontarne davvero la complessità. La risposta alla povertà alimentare in Italia si basa ancora in larga parte su strumenti di assistenza materiale, come la distribuzione di pacchi alimentari e l’accesso a mense e empori solidali. Negli ultimi anni il ruolo del Terzo settore è diventato centrale nel garantire un sostegno immediato a chi è in difficoltà, spesso supplendo alle carenze del welfare pubblico.
Tuttavia, questa rete di aiuti resta concentrata soprattutto sulla risposta ai bisogni più urgenti e immediati e fatica a intercettare quelle forme di povertà alimentare meno gravi ma più diffuse, che riguardano la quotidianità di molte famiglie e restano spesso invisibili. Inoltre, l’aiuto alimentare fornisce un supporto importante, ma non affronta le cause profonde: il basso reddito, il lavoro povero, la mancanza di servizi territoriali, l’aumento del costo della vita e le disuguaglianze sociali. Per molte famiglie ricevere aiuto significa sopravvivere nel breve periodo, ma rimanere intrappolate in una condizione di dipendenza nel lungo termine.
Per contrastare davvero la povertà alimentare servono politiche pubbliche strutturali e multidimensionali, capaci di integrare misure di sostegno al reddito, politiche alimentari e interventi di prevenzione delle disuguaglianze. Occorrono strumenti che rafforzino la sicurezza economica delle famiglie – lavoro dignitoso, salari adeguati, misure contro la povertà minorile – insieme a interventi territoriali che riducano le barriere di accesso al cibo: mense scolastiche universali e di qualità, sostegno alle reti di prossimità, servizi educativi e comunitari, politiche urbane per quartieri più equi e inclusivi. La povertà alimentare non è un problema individuale da risolvere con la carità, ma una questione sociale che riguarda diritti, giustizia e uguaglianza. Per questo è necessario passare da un approccio assistenziale a una strategia pubblica che riconosca il cibo come un diritto umano fondamentale.

Foto di JAEMAN JUNG su Unsplash