La ministra Roccella, ministra della Repubblica italiana, ci ha raccontato che i viaggi della memoria dal suo punto di vista sono solo “gite scolastiche” e servano soltanto a circoscrivere l’antisemitismo in un contesto storico preciso e renderlo prerogativa del fascismo.
Ci ha raccontato anche che i viaggi della memoria sarebbero un pretesto per sdoganare l’antifascismo. E quest’affermazione fa paura. Paura perché non si può ignorare quanto l’antisemitismo sia ben presente nella struttura di odio sociale, un odio alimentato in ogni sua forma, dall’omotransfobia alla xenofobia, e tenuto ben in vita anche da norme e leggi che, di fatto, ne ostacolano il contrasto.
I viaggi della memoria insegnano ai nostri ragazzi che, se il fascismo come partito politico è stato sciolto nel 1943 ed ogni sua riorganizzazione vietata dall’art.12 della Costituzione, in realtà il suo modello ed i suoi riferimenti culturali – dal linguaggio agli atteggiamenti sociali – sono ben radicati nella realtà odierna.

Usare Auschwitz ed il genocidio di sei milioni di persone per giustificare le posizioni che l’Europa oggi non sa prendere per fermare l’espandersi di quella “prigione a cielo aperto” che è oggi la Striscia di Gaza è inaccettabile. Utilizzare gli orrori dell’Olocausto per ribaltare, da parte dell’attuale governo, una politica fatta di respingimenti, di alienazione di diritti, di scelte che hanno a che fare con voli di Stato concessi a torturatori come Almasri e cotillon con Netanyahu, per non dover ammettere che oggi la Palestina è un impasto di distruzione, rancore e odio, senza tregua, senza soluzione, è irricevibile.
Perché alla fine, come diceva Grossmann, ognuno di noi può diventare l’ebreo di qualcun altro. Il cancello di Auschwitz è il più famoso del mondo ed il più “cattivo”, se esistono cancelli cattivi. Quello di cui fai appena in tempo a leggere l’iscrizione – “arbeit macht frei”, il lavoro rende liberi – che già sei in quell’altrove definito “anus mundi”.

Invece, ad Auschwitz basta un soffio di vento a scuotere una betulla per fare cadere tutta l’impalcatura. Anche la più solida. Quando varchi quel portone e vedi davanti a te le strade dall’impianto ippodameo, gli edifici ordinati in mattoni grigi, il silenzio irreale tra migliaia di visitatori. E i filari di betulle, i cumuli bianchissimi di neve e la quiete. La quiete in quel luogo che era una babele di lingue, di urla e latrati, di fumi e spari e percosse, di pianti e singhiozzi e lacrime, di fetore di patate marce e sangue rappreso e urina e feci. La quiete di una testa rasata, di una penna che incide il braccio di acqua che scende da una doccia invece del gas. La quiete di una notte con troppe stelle e senza abbracci di amanti.
Subisci immediatamente gli effetti di quel non- luogo. E’ tale è lo choc che potresti perfino arrivare a dubitare che gli orrori raccontati dai sopravvissuti, dalle immagini di repertorio, dalle migliaia di fotografie possano essere realmente accaduti. Dubiti persino del fatto di essere là, perché una tale perfezione architettonica rende di conseguenza implicito che quel posto sia stato pensato, pianificato e costruito – nella sua fisicità di immane manufatto – attraverso un progetto, perché ciò implica innanzitutto il problema della responsabilità. Ad Auschwitz e a Birkenau si stravolge persino il senso di architettura, che qui ha infranto il suo intrinseco legame con civiltà e società, facendo della desertificazione il primo termine della relazione tra vita umana e ambiente.

Verso Birkenau cammini sulle fosse comuni, quelle scavate quando i forni non riuscivano a smaltire tutto il carico di “stuck”, pezzi, gasati col zyclon B. Sul cuore, la neve. Il bosco di betulle tutto intorno, a perimetrare le macerie di Birkenau, a fare da sfondo alle baracche di legno. E da quel bosco ti sembra di vederli, di sentire tutte quelle anime che ti guardano, ti spiano dentro il cuore. Nella neve un alito di preghiera che chiede solo memoria.

É il posto dove la solitudine estrema dell’uomo può trasformarsi in comunità.
Una comunità che ha scelto di affrontare un viaggio che porta a fare i conti con la storia, con l’essere umano e con gli uomini e donne che vogliamo diventare, antifascisti per “Costituzione”. Auschwitz non è un luogo dove ci si deve porre il problema se piangere i milioni di morti ebrei, rom, sinti, zingari e omosessuali: perché ad Auschwitz è morta l’umanità. Perché è solo lì, dove l’essere umano ha smesso di essere tale, che possiamo davvero riscoprirci in quella che è la più assurda, consapevole e deliberata banalità del male.
L’autrice: Valentina Colli è archeologa e componente dell’Udi Trapani
Foto di Valentina Colli




