Kinshasa -Ho incontrato Jean al mercato, qualche giorno fa, vendeva patate dolci e mi ha implorato di trovargli un lavoro in Francia. Dietro gli occhi castani, un velo di paura. Gli ho chiesto di raccontarmi la sua storia e ci siamo incontrati nei pressi della chiesa dei Saveriani, a Panzi, dove c’è un oratorio: «Lì non desteremo sospetti». Mi ha detto. «La mia vita fa schifo e se scoprono quello che ho fatto, potrebbe peggiorare».
Jean prende fiato, si gratta la caviglia destra. «Vivevo a Bukavu, nel Sud Kivu, Repubblica democratica del Congo (RdC) con i miei genitori. Un giorno mio padre se n’è andato e mia madre, per pagare l’affitto, ha cominciato a vendere samosa, ma i soldi che guadagnava non erano sufficienti per le spese e il proprietario ci ha buttati fuori di casa. Ci siamo trasferiti da mia zia, ma anche lì i conti non tornavano e mia madre mi ha spedito a chiederli a mio zio. Arrivato a Misisi, a ovest di Bukavu, mio zio mi ha detto di aspettare la fine del mese, quando avrebbe ricevuto lo stipendio». Jean si è messo il vestito buono per incontrarmi, una felpa nera, col disegno di un gatto giallo, e dei jeans nuovi. «Mentre ero a casa sua ho conosciuto il suo vicino, proprietario di un ristorante, che mi ha proposto di lavorare con lui, mi avrebbe dato vitto, alloggio e un misero stipendio. Mio zio è stato subito d’accordo: “È giusto che a undici anni, cominci a guadagnare qualche soldo”. Due giorni dopo mi sono trasferito a vivere nel ristorante: dovevo servire ai tavoli».
Il cielo si rabbuia, nubi si addensano all’orizzonte, ma noi ci siamo sistemati al riparo di una tettoia gialla, di plastica. «Nel ristorante lavoravo assieme a Paul che lavava i piatti e René che stava in cucina. Il ristorante era aperto tutti i giorni, tranne la domenica. Quella domenica, dopo esserci cambiati, siamo andati a fare una passeggiata sino al quartiere di Nyumbi, a vedere una partita di calcio. Quando mi sono accorto che si stava facendo tardi, ci siamo avviati per rientrare». Ancora uno sguardo alle sue spalle, la paura del pregiudizio e della stigmatizzazione è enorme. «Sulla strada abbiamo incontrato un uomo che indossava un completo elegante. “Nella parrocchia della Santissima Trinità, distribuiscono la cena gratis”, ci disse. Ho guardato i miei amici e abbiamo pensato che sarebbe stato conveniente non dover cucinare. L’uomo ci rassicurò, ci avrebbe accompagnato lui. Appena arrivati in una via laterale, ci hanno aggredito. Ci hanno legati, bendati e ci hanno ordinato di seguirli».
«Avevate capito, cosa stava succedendo?». Gli domando. Lui scuote la testa. «Abbiamo camminato a lungo, siamo arrivati al loro accampamento, nel cuore della notte. Ci hanno tolto la benda e ci hanno legato a un albero, per evitare che fuggissimo, tenendoci sotto tiro con il fucile. Al mattino, quando il sole era appena sorto ci hanno slegato e ci hanno portato una valigia piena di divise militari, ci hanno spogliato e obbligato a indossarle. La mia giacca era troppo grande ed era già stata usata da qualcuno, perché aveva una grossa macchia scura all’altezza del fianco». Jean mi osserva, ancora dubbioso se proseguire o meno. Io lo rassicuro: non userò il suo vero nome, nel raccontare la sua storia. «Abbiamo cominciato l’addestramento. Il nostro inquadratore, un ragazzo di circa diciassette anni, Per continuare la lettura dell'articolo abbonati alla rivistaQuesto articolo è riservato agli abbonati
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