C’è un ministro della Cultura che dice di amare il cinema, ma nelle carte ufficiali ne programma l’eutanasia. Alessandro Giuli, appena insediato, aveva promesso di difendere «la filiera dell’audiovisivo». Poi, il 17 ottobre, il suo gabinetto ha scritto al Tesoro indicando i capitoli da sacrificare: il Fondo per il cinema e l’audiovisivo doveva scendere da 696 a 400 milioni di euro, cioè 540 milioni di tagli in due anni.
Non un errore, ma una scelta politica. Colpire un settore considerato “ostile” dopo i discorsi di Elio Germano al Quirinale e di altri artisti scomodi. Punire un’industria culturale che dà lavoro a migliaia di persone, vale circa l’1% del PIL e contribuisce più di tanti distretti industriali. Persino i tecnici del Mef hanno frenato, spiegando che un taglio simile avrebbe messo in ginocchio l’intero sistema produttivo.
Giuli, scoperto, ha tentato la contorsione: ha parlato di «fraintendimento» e minacciato querele contro chi ha pubblicato la mail, cioè Repubblica. Ma la mail esiste, è firmata, e racconta la verità di un ministro che considera la cultura una spesa superflua, non un investimento.
In Aula non è un caso che siano arrivate parole nette: Gaetano Amato (M5S) ha chiesto al ministro di riferire «con urgenza», parlando di «gravità inaudita»; Matteo Orfini (Pd) vede una «linea: demolire una filiera industriale perché non gradita»; Elisabetta Piccolotti (Avs) definisce Giuli «ministro contro la Cultura». Intanto Anica e Apa giudicano «devastanti» i tagli e smontano la finta toppa dei 100 milioni spostati dai contributi automatici: una partita di giro, non risorse nuove.
Oggi sarà ricevuto da Giorgetti per chiarire, ma la domanda resta: come può un ministro della Cultura rimanere al suo posto dopo aver chiesto di decimare la cultura stessa?
Buon mercoledì.




