Non esistono orrori che si compensino a vicenda. Ogni violenza ha il suo luogo, la sua storia, la sua responsabilità. Se Hamas giustizia sommariamente i propri cittadini, quell’orrore resta lì, a Gaza, e lì deve essere giudicato: all’interno delle vicende storiche che avvolgono la Striscia. Non va giustificato, ma condannato, perché la vendetta non è mai giustizia.
Allo stesso modo – e nella stessa misura – va condannato ciò che accade in Israele, in quella che continua a definirsi una “democrazia”, ma che sempre più assume i tratti di uno Stato teocratico. Basta guardare alle condizioni di detenzione dei prigionieri palestinesi, allo stato delle libertà politiche e civili, e – soprattutto – al progetto di reintroduzione della pena di morte.
Non si tratta di un dettaglio tecnico, ma di un segnale politico. Il punto non è l’universalità dei diritti umani – una favola giuridica buona per le nostre ingenuità – bensì la relatività delle tutele, da leggere all’interno dei principi di ciascun ordinamento. Ed è proprio qui che si manifesta l’orrore: nel voto preliminare della Knesset a favore del disegno di legge che introduce la pena capitale per i terroristi, in aperta contraddizione con i fondamenti stessi dello Stato israeliano.
Il testo ha ottenuto un primo via libera con 39 voti favorevoli e 16 contrari. Ora passerà in commissione, dove potrà essere modificato prima delle successive letture. Ma l’immagine che resta è quella di Itamar Ben Gvir – ministro della Sicurezza nazionale, leader del partito di estrema destra Otzma Yehudit (“Potere ebraico”) – che festeggia il voto offrendo baklava nei corridoi della Knesset. Un dolce trionfo, potremmo dire, servito sulla bocca amara della legge.
Attualmente in Israele la pena di morte è prevista solo in casi eccezionali – e quante cose si potrebbero dire sul concetto di “eccezione” – come l’alto tradimento o i crimini di guerra di epoca nazista, cioè i crimini contro il popolo ebraico. È stata applicata una sola volta, nel 1962, con l’impiccagione di Adolf Eichmann.
L’opposizione ha denunciato che il nuovo disegno di legge è in realtà una “legge contro gli arabi”, poiché la sua formulazione permetterebbe di applicarla facilmente agli autori arabi di omicidi di cittadini ebrei. Ancora più grave: il testo prevede che i tribunali militari in Cisgiordania possano infliggere la condanna a morte con una semplice maggioranza, eliminando l’obbligo di unanimità e impedendo di considerare eventuali circostanze attenuanti.
Cosa dire di più? La “democrazia” israeliana ha imboccato una brutta strada, un vicolo cieco di messianismo e paura. L’introduzione di una pena di morte ad personam segna la rottura con il proprio ordinamento giuridico, che fino a ieri cercava – non senza fatica – di mantenere un equilibrio tra le eredità di civil law e di common law nate dalla complessità della sua formazione.
Oggi, invece, sembra prevalere un diritto teocratico, fondato non sulla giustizia ma sulla sua negazione più radicale: la vendetta. Un’idea di diritto incentrata sul primato dell’ordinamento giuridico statale, dove personalità e comando procedono di pari passo: la sovranità soggettivistica come antitesi dello Stato di diritto.
In apertura, Ben Gvir durante una manifestazione contro il cessate il fuoco su Gaza
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