Ogni giorno il progetto Albania si sgretola sotto il peso delle verifiche giuridiche. La decisione della Corte di giustizia Ue di accelerare l’esame del rinvio della Corte d’appello di Roma apre una faglia che attraversa l’intero impianto dell’accordo: il dubbio riguarda la legittimità stessa della firma italiana, in un settore che l’Unione ha già disciplinato in modo dettagliato. I giudici romani osservano che i centri di Shengjin e Gjader alterano il sistema comune di asilo, entrando in collisione con le norme europee dedicate alla tutela dei diritti fondamentali.
La vicenda arriva dopo mesi in cui la magistratura ha evidenziato crepe profonde: dalla decisione Ue di agosto sui «paesi di origine sicuri» fino al rinvio sollevato dalla Cassazione sulla seconda fase del protocollo, quella che prevede il trasferimento degli “irregolari” verso Gjader. Il nuovo procedimento è il più incisivo, perché mette in discussione l’esistenza stessa del protocollo e restringe gli spazi degli Stati membri nella stipula di accordi internazionali in aree di competenza condivisa.
Nel frattempo l’esecutivo continua a presentare le discussioni europee su Paesi sicuri e return hubs come un’investitura politica. Il Consiglio ha solo definito una posizione negoziale che dovrà passare al Parlamento e alla Commissione, mentre la Corte ricorda che persino gli atti comunitari restano sottoposti al controllo dei giudici nazionali.
Il progetto Albania avanza così in un territorio sempre più incerto. Ogni passaggio della giustizia ridisegna la mappa reale del diritto e lascia emergere un dettaglio che la propaganda ha tentato di mettere ai margini: l’esperimento d’Oltreadriatico poggia su fondamenta che mostrano crepe sempre più visibili.
Buon mercoledì.




