Dopo mesi di annunci pirotecnici, Renzi ha provato ancora ad indorare articoli e commi del ddl sulla scuola con una variopinta sfilata di slide. Prima, nel video diffuso su facebook del 3 marzo, aveva tirato fuori dal cilindro la strabiliante cifra di un milione e settecentomila persone in qualche modo raggiunte dalla consultazione sulla Buona scuola. E ha detto che così la riforma è stata sottratta agli addetti ai lavori (secondo lui i sindacalisti), continuando a ignorare la sistematica esclusione dei più autorevoli addetti ai lavori (insegnanti, personale ausiliario, tecnico, amministrativo e studenti) da ogni discussione vera sulle condizioni e sulle necessità della scuola.
Poi, il 12 marzo, durante la presentazione del ddl, ha magnificato una riforma a misura di studente, ma non ha spiegato come uno studente possa sentirsi valorizzato in un ambiente già depresso e senza nuove significative risorse. L’unico cenno alla consultazione sulla Buona scuola è servito al premier per giustificare la retromarcia sulla tentata truffa di far passare come premio ai più meritevoli il diritto a non perdere gli scatti di anzianità. Nessun cenno agli aiuti statali a chi paga le rette alle scuole private, una decisione del tutto scollegata dalla consultazione.
La grande riforma annunciata ormai da mesi non è altro che uno scarico di responsabilità dall’amministrazione centrale ai presidi e ai finanziatori privati che i dirigenti scolastici saranno costretti a cercare. Non a caso Renzi ha usato l’immagine del preside-sindaco: come il governo centrale ha scaricato sugli enti locali il reperimento di fondi per i servizi ai cittadini, così sarà compito del preside-sindaco trovare le risorse per mandare avanti la baracca. A lui, tra le altre incombenze, anche quella di rispondere delle classi-pollaio o dell’allargamento dei cordoni della borsa per scongiurarle. E quella di trovare dei criteri per riconoscere la qualità dell’insegnamento.
Con l’attuale ddl l’autonomia assume sempre più chiaramente il valore di un invito del governo alle singole istituzioni scolastiche ad affinare l’arte di arrangiarsi. Nell’ottica di chi l’ha generato, l’istruzione deve diventare una spesa privata corrispondentemente a scelte private. In questa direzione vanno la frantumazione dei curricula nazionali, la possibilità di versare ai singoli istituti il 5 per mille, con esiti prevedibilmente diversi tra zone ricche e aree povere, e la scelta del corpo docente da parte dello stesso preside-sindaco, a prescindere dai titoli, destinati così a perdere valore legale, come da programma della P2.
Così il racconto della libertà garantita dall’autonomia, che lotta e vince contro la burocrazia e gli automatismi di uno Stato opprimente, veicola la massima berlusconiana secondo cui il capo può fare quello che vuole perché i diritti esistono solo sulla carta. Ancora, nel disegno di legge c’è l’obiettivo di potenziare tutto e perfino di allargare le finalità dell’istruzione, ma senza la previsione di investire adeguate risorse economiche.
Escludendo i costi legati all’immissione in ruolo dei precari, misura contenuta nel ddl in ottemperanza a una sentenza della Corte di giustizia europea, il ddl prevede nuove risorse pari a 450 milioni di euro per il 2016. Su un bilancio dell’istruzione che arriva a 40 miliardi, quale positivo cambiamento di verso possiamo aspettarci?