Centoventi morti, circa duecento feriti alcuni gravi. Sei attacchi, sia esplosivi che di gruppi armati. Il presidente francese Francois Hollande ha parlato di attentato organizzato all’estero con del supporto logistico in Francia. E in effetti l’ISIS ha rivendicato l’attentato (il comunicato nel tweet qui sotto). Tra gli attentatori morti ce n’è uno che aveva con sè un passaporto siriano, una donna e un francese e un nato nella banlieue parigina e segnalato per aver avuto rapporti con ambinti islamici radicali. Ecco alcune informazioni che possono essere utili a leggere il contesto.
#BreakingNews: #ISIS declare official responsibility for #ParisAttacks #FranceUnderAttack #France pic.twitter.com/75bDTXF14M
— Elijah J. Magnier (@EjmAlrai) 14 Novembre 2015
Ma prima alcune certezze:
1. le centinaia di migliaia in fuga dalla Siria e dall’iraq non sono i terroristi ma le loro vittime e se pure tra loro si nasconde qualche assassino, sarà il caso di migliorare l’accoglienza e spendere soldi per farla e verificare l’identità di queste persone bene, anziché rimpallarsele tra una frontiera e l’altra;
2. occorono leggi e intelligence migliore per limitare e colpire il commercio di armi, da quelle che vengono da vecchie guerre come la Jugoslava a quelle della malavita. Senza armi o avendo difficoltà a procurarsene non si compiono stragi o si è più facilmente individuabili quando si cerca di acquistarne al mercato nero.
3. l’ISIS ha (per ora) cambiato modo di agire: se in origine l’idea era quella del califfato inteso come ambito territoriale da occupare ed espandere, oggi è la guerra contro gli sciiti (le bombe a Beirut e il presidente iraniano Rouhani che era atteso a Parigi e Roma e ha cancellato la visita) e contro l’Occidente.
Perché la Francia?
Non si tratta di una reazione ai bombardamenti o agli arretramenti e sconfitte di ISIS in Iraq e Siria: quella di Daesh è una jihad globale accompagnata da quella regionale che prende al forma di occupazione di territorio nei due Paesi. In queste settimane cellule collegate in qualche forma al califfato hanno colpito gli arcinemici sciiti a Beirut (due bombe e più di 40 morti), un aereo di linea russo sopra il Sinai e poi la capitale francese. Parigi è varie cose assieme: il centro d’Europa, un luogo dove in alcuni quartieri è più facile confondersi e non farsi notare e, infine, Parigi è la capitale del Paese molto impegnato militarmente e politicamente nella guerra a Daesh e al Qaida in Siria, Iraq, Yemen, Mali. Lo Stato islamico combatte chi lo combatte. Gli Stati Uniti, con le loro mega agenzie, dieci anni di controlli e la loro posizione geografica, sono più difficili da colpire – e tutto sommato, pur essendo l’arcinemico, sono meno in prima linea che in passato.
Ci si aspettava un attentato così?
Difficile da dire: quando i servizi lanciano gli allarmi non sappiamo mai se si tratti di esagerazioni e, dopo una strage, è facile dire “i servizi avevano lanciato l’allarme”. Certo, avevamo avuto avvisaglie. A giugno il coordinatore dell’antiterrorismo dell’Unione europea, Gilles de Kerchove ha detto: «E’ molto probabile che l’ISIS stia preparando, formando e spedendo alcuni dei combattenti stranieri a organizzare attacchi in Europa, o al di fuori di essa». Certo che l’aver trovato un passaporto siriano nelle tasche di uno degli attentatori uccisi rafforza l’idea di una cellula passata per la Siria (europea o proveniente dall’estero che fosse).
Alcuni collegamenti tra Daesh e attentati (portati a termine o pensati) in Europa erano già stati fatti. Nel 2007 un britannico e un indiano che hanno condotto un attacco guidando un’autobomba contro l’aeroporto di Glasgow, lasciando due autobomba a Londra, avevano avuto contatti in Arabia Saudita e altri Paesi europei e sui loro cellulari c’erano salvati numeri di telefono collegabili allo Stato islamico. I funzionari antiterrorismo britannici sostengono che quell’attacco è una prova di stretta collaborazione tra combettenti occidentali e Daesh.
Nel 2010 un membro dello Stato islamico arrestato in Iraq aveva parlato di attacchi in preparazione in Occidente. Sempre nel 2010 Taimour Abdulwahab al-Abdaly, di origine irachena, ha fatto esplodere due bombe, morendo a Stoccolma. Originario di Baghdad, si è pensato che fosse stato addestrato l’Isis a Mosul per tre mesi prima dell’operazione, in ogni caso viveva a Luton, Gran Bretagna e aveva dei contatti con persone sospettate di essere pericolose (una è stata arrestata dopo la morte di al-Abdaly).
Poi c’è l’allarme lanciato dal ministero della Difesa iracheno che ha detto di aver catturato una cellula che fabbricava armi chimiche da contrabbandare in Europa e Stati Uniti. Difficile verificare l’autenticità di questa minaccia. A maggio 2014, Mehdi Nemmouche, cittadino francese che probabilmente aveva combattuto in Siria nel 2012, ha sparato e ucciso tre persone presso il Museo Ebraico di Bruxelles.
Ha un significato questo attacco?
C’è un aspetto ideologico che va sottolineato specie per quei Paesi dove c’è una forte comunità islamica che è in parte radicalizzata ed esclusa (Francia e Gran Bretagna in primis): Daesh ha dichiarato di voler eliminare la zona grigia dell’Islam occidentale, o si sta con l’Occidente e allora Daesh è in guerra anche contro di te musulmano, oppure si decide di combatterlo. L’attacco di Parigi è questo: non c’è un luogo simbolico, c’è la città tutta e in luoghi normali. Obbiettivo primario seminare il panico e dichiarare guerra alla società occidentale nel suo complesso (non agli ebrei, ai governi, al potere dell’Occidente) e ai suoi amici, ovvero tutti i musulmani che non si schierano.
Che novità dal punto di vista militare?
La tecnica è già vista fuori dall’Europa ed è anche piuttosto tipica del modo di fare guerriglia di Daesh e di al Qaeda in Iraq negli anni della guerra. Attentati in serie o attacchi simultanei coordinati li abbiamo visti quest’anno in Yemen, in Sinai, Iraq, Libano. Spesso in quei Paesi sono bombe in successione, che colpiscono mentre la situazione di panico si è scatenata e i soccorsi sono già sul luogo. Per le forze speciali anti-terrorismo e i soccorsi gli attacchi come quelli di stanotte sono l’incubo peggiore: non sai dove andare, chi inseguire, come coordinare sforzi e indagini e ti devi muovere in una città in preda al panico. Ecco come descrive la riorganizzazione degli interventi nel 2013 l’ex comandante dei GIGN (il Gruppo di intervento della Gendarmerie Nationale) parlando degli attacchi di Bombai e Oslo:
Il GIGN si è organizzato per agire in modo più rapido. Risparmio di tempo, indipendentemente si ci si prepara a un negoziato o a un blitz. Durante un allarme, la prima ondata lascia caserma in meno di trenta minuti e con mezzi veloci. Per bersagli distanti si usano gli elicotteri. I briefing si fanno via autoradio e, se necessario, si confezionano esplosivi sui mezzi di trasporto. Dopo la prima ondata, arriva la seconda, di persone meglio equipaggiate ed armate. Questa modalità si definisce “Piano d’azione immediata”. Il potere politico è l’unico che può dare il via libera e per questo vengono approntati mezzi speciali per le comunicazioni e di videoconferenza mobili per parlare con la Difesa, gli Interni, il presidente.
Gli attacchi suicidi con cinture kamikaze e i commandos visibilmente addestrati – così dicono le testionianze e gli esperti – che aprono il fuoco su tutto e tutti sono una novità per l’Europa. A Bombai e a Nairobi si erano già visti. In quei casi si trattava di gruppi di persone addestrate e provenienti da Paesi stranieri e confinanti (Pakistan e Somalia). Qui, se è vero che ci sono stranieri o francesi addestrati militarmente all’estero, è altrettanto certo (confermato dalla polizia) che c’erano francesi: un gruppo di soli stranieri non sa in che zone colpire, in che club colpire se qualcuno non lo guida. Non stiamo parlando di obbiettivi sensibili.
Perché le agenzie di intelligence non sapevano nulla?
Le nuove leggi anti-terrorismo approvate in Francia dopo la strage di Charlie-Hebdo hanno rafforzato il coordinamento tra le forze di polizia e le agenzie di intelligence, gli Usa sorvegliano la vita di tutti e chiunque, la Gran Bretagna ha appena concesso poteri di sorveglianza speciali ai servizi. Eppure non c’erano avvisaglie di questo attentato. Segno che c’è qualcosa che non funziona e che – il caso del ritrovamento di bin Laden è esemplare in altro modo – servono indagini, capacità ed esperienza e non microspie dappertutto (o tortura). E’ pur vero, vale il discorso fatto sugli allarme terrorismo, che in questi anni varie volte ci è stato detto che un attentato era stato sventato o che una cellula terroristica era stata smantellata. Spesso non ce ne accorgiamo o pensiamo si tratti di esagerazioni per giustificare le risorse spese in intelligence. Probabilmente sono veri gli attentati sventati e – a volte – l’idea che si tratti di esagerazioni.
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