Farhad Khosrokhavar è un sociologo franco-iraniano esperto sui temi di integrazione e cultura islamica. In particolare si occupa dei fenomeni di radicalizzazione nell’islam e del legame che questo fenomeno sviluppa con il terrorismo. Nel libro Quand Al-Qaïda parle: témoignages derrière les barreaux, ad esempio, analizza il fenomeno del fondamentalismo e Al-Quaida attraverso interviste con militanti in prigione in Gran Bretagna. Secondo Khosrokhavar queste testimonianze rivelano che in realtà non ci si trova di fronte ad una “guerra di civiltà” perché il fenomeno non sarebbe altro che una reazione alla crisi culturale che sta vivendo lo stesso Occidente con una conseguente crisi di identità che porta le menti più deboli ad abbracciare le utopie proposte dall’islamismo radicale. La stessa cosa vale per Isis – come si legge nel suo ultimo saggio Radicalisation (2014) – che, non a caso, punta moltissimo sulla propaganda mediatica, diffondendo video che hanno la stessa qualità dei documentari delle grandi reti occidentali e, molto spesso, “assoldando” anche reporter volti famosi dell’informazione globale, come nel caso del reporter John Cantlie che ha girato un video informativo-promozionale sulla città di Mosul. In un’intervista concessa ieri a Libération Khosrokhavar ha cercato di spiegare meglio cosa sta succedendo nella società francese e più in generale in Europa. Ve ne riproponiamo qui alcuni estratti:
Non c’erano stati finora attacchi suicidi in Francia. Si tratta di un punto di svolta?
Finora gli attacchi jihadisti commessi sul suolo francese avevano tutti un bersaglio, ad esempio Charlie Hebdo e la comunità ebraica, nel mese di gennaio 2015, o i militari francesi musulmani, come Merah prima di attaccare una scuola ebraica a Tolosa nel 2012. Ora siamo di fronte a un terrorismo cieco, soprattutto perché molti obiettivi sensibili sono protetti, e quindi più difficili da raggiungere. Le stragi del 13 novembre nel loro modus operandi ricordano quelle della stazione di Atocha a Madrid nel 2004 o quelle della metropolitana di Londra nel 2005, che erano operazioni suicide. Penso che dovremmo anche chiarire il concetto di kamikaze. C’è quello che potremmo chiamare il ‘kamikaze immediato’, che attiva la cintura esplosiva per fare la sua carneficina, e c’è il ‘kamikaze differito’ che vuole combattere fino alla fine con le armi in mano. Psicologicamente, non c’è differenza apprezzabile tra uno e l’altro: entrambi sanno che la fine mortale è certa.
Come si diventa un attentatore suicida?
Nelle organizzazioni jihadiste ora che operano in Siria o in Iraq l’offerta di volontari disposti al sacrificio supremo è tale che c’è l’imbarazzo della scelta. Il processo di formazione e il futuro del ‘martire’ combattente è tracciato. Anche coloro che hanno lasciato l’Occidente per combattere non sono tutti i volontari per la morte: sono anche attratti dall’avventura. La questione si pone in modo diverso in Occidente, dove possono operare solo piccoli gruppi. […] Una volta che il gruppo inizia a crescere e fare proseliti, viene notato dalla polizia e smantellato. La scelta di chi compie l’operazione è fatta in modo molto tradizionale, ma c’era sempre un passaggio all’estero, per quanto breve, di almeno uno dei pilastri del gruppo. Non ci si radicalizza da soli a casa dietro lo schermo.
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«La scelta di chi compie l’operazione è fatta in modo molto tradizionale, ma c’è sempre un passaggio all’estero, per quanto breve, di almeno uno dei pilastri del gruppo. Non ci si radicalizza da soli a casa dietro lo schermo»
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Come si diventa Jihadisti
Gli autori di attacchi jihadisti, in generale, sono cresciuti in famiglie disgregate. C’è spesso un passaggio attraverso la prigione, che è sempre una tappa importante nel corso del processo di radicalizzazione. C’è poi un terzo elemento importante: sono dei “rinati”, dei musulmani che hanno riscoperto l’Islam nella sua forma più radicale o dei convertiti che hanno trovato un modo per dare senso alla loro vita. E infine c’è il viaggio iniziatico in una terra di jihad. […] Questo passaggio è essenziale perché permette al futuro kamikaze di diventare estraneo alla società di origine e di acquisire la crudeltà necessaria per agire senza colpa o rimorso. È lì, sul campo, che ci si indurisce in nome della fede.
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In Europa ci sono sacche di povertà che si ideologizzano e radicalizzano. Il sentimento di vittimismo e l’adesione a una causa collettiva, come nel caso della Jihad islamica, permettono il superamento dello stigma dell’emarginazione
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Quando si è pronti a uccidere si è anche pronti a morire. Questo era già vero per i militanti fanatici del comunismo e del nazismo, quelli dei gruppi terroristici rossi o neri degli anni settanta. […] Inoltre non bisogna scordare che in Europa ci sono sacche di povertà che si ideologizzano. Dentro queste sacche di povertà, la radicalizzazione nei confronti della società si fa in nome dell’Islam. Il sentimento di vittimismo e l’adesione a una causa collettiva permettono il superamento dello stigma dell’emarginazione. Un nuovo elemento appare con sempre più evidenza: la radicalizzazione dei giovani che provengono dalle classi medie, di famiglie musulmane e non. Tra i volontari passati ultimamente per la jihad in Siria o in Iraq, il 25% al 30% proviene da questi ambienti, e la percentuale di ragazze e giovani donne è molto alta, più del 3%. Questo fenomeno può essere spiegato in parte dal declino della politica e dalla ricerca di un’utopia, ma ancor più dalla paura per lo status sociale e il futuro. Ci si aggrappa alla prima utopia totalizzante che passa.
L’analisi di Farhad Khosrokhavar evidenzia la necessità di agire con politiche di integrazione sociale e accoglienza che diano la possibilità di sviluppare identità alternative a quelle proposte dagli estremisti islamici e non radicalizzate. Proprio per questo le reazioni delle destre che fomentano l’islamofobia rischiano di marginalizzare ancora di più chi già vive all’interno delle sacche di povertà presenti nella società e di spingere sempre più persone verso l’estremismo alla disperata ricerca di un’identità e di un’appartenenza.
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