L’antefatto è più o meno questo: Ali Awad aveva 14 anni, stava tagliando delle verdure quando una bomba è esplosa all’improvviso e lo ha colpito. Adel Tormus era seduto al tavolo di un caffè, lì nei paraggi. Si sente un secondo boato. Adel muore ammazzato come Ali da una bomba di Isis. Non siamo a Parigi, ma a Beirut. In Libano. Esattamente il giorno prima della carneficina che ha sconvolto la capitale francese, quando un doppio attentato suicida ha devastato una zona commerciale frequentata da ragazzi, persone comuni, non la generazione Bataclan, ma qualcosa di molto simile. Anche se a migliaia di chilometri di distanza dalla Ville Lumiére.
Le esplosioni a Beirut hanno causato 43 morti e centinaia di feriti nel peggior attentato che abbia mai colpito la città negli ultimi 25anni. Eppure i giornali e i tg del giorno dopo, quel fatidico venerdì 13 novembre, ne parlano appena. Quella stessa sera in Francia si scatena l’orrore. Gli attacchi rapidamente rimbalzano sui canali all news e conquistano le aperture di tutti i siti web d’informazione. Suscitano interesse, paura, terrore, invadono i social con post, video, disegni, hashtag. Catturando un’attenzione mediatica che mai sarebbe stata riservata al Libano.
Raramente gli eventi si susseguono così rapidamente da poter offrire un confronto su come un fatto simile venga percepito a seconda che accada in un luogo o in un altro, che una bomba scoppi in Libano o a Parigi, che uccida 40 innocenti qui o più di 100 lì. In questa occasione è successo.
E dopo lo sgomento per Parigi, dopo l’ammirazione per la loro forza d’animo di un popolo che si è fatto coraggio cantando la Marsigliese e gridando «liberté egalité fraternité», c’è chi ha cominciato a guardare un po’ più in là. Ha smesso di concentrarsi esclusivamente su quanto era accaduto nel cuore dell’Europa e ha fatto notare che per i 40 morti di Beirut non si era gridato all’orrore – anche se era un orrore – non ci si era affrettati a postare lo sdegno su tutti i profili social in nostro possesso, né a cambiare la foto profilo con la bandiera del Libano. Che poi: chi diavolo sa che bandiera ha il Libano?
A porre la questione sul piatto sono state soprattutto le grandi testate internazionali, le stesse che, dopo tutto, avevano orchestrato una copertura così ìmpari. Anne Barnard sul New York Times fa notare che dopo gli attentati di Parigi «per alcuni a Beirut, la solidarietà si è mescolata all’angoscia per il fatto che solo una delle due città colpite – Parigi appunto – ha ricevuto una effusione di cordoglio a livello mondiale simile a quello che avevano ricevito Stati Uniti dopo gli attacchi dell’11 settembre». Lo stesso fa Aryn Baker, corrispondente dall’Africa per Time, che per anni ha lavorato e abitato a Beirut e scrive: «Qualunque siano le ragioni – e ce ne sono molte – per la disparità nella reazione globale, il messaggio che emerge da questi due eventi paralleli è che alcune vite contano più di altre».
Il settimanale americano The Atlantic, conia una definizione e parla di un evidente “Empathy Gap” nelle risposte emotive suscitate da Parigi e Beirut. Ogni volta che c’è un grave attacco terroristico in una città americana o europea – come negli ultimi anni è stato per New York, Madrid, Londra, Parigi e ancora Parigi una seconda volta – tutto quello che accade in una di queste parti del mondo cattura l’attenzione e la preoccupazione di americani ed europei in un modo in cui le stesse atrocità commesse altrove non sembrano riuscire a fare.
Un medico libanese, Fares Elie, nel suo blog ha commentato così questo “gap empatico”:
«Quando sono morti dei miei connazionali, nessun Paese si è preso la briga di illuminare i suoi monumenti con i colori della nostra bandiera. Quando sono morti i miei connazionali, non si è messo a lutto il mondo. La loro morte non è stata altro che “una macchia irrilevante tra la solita serie di notizie internazionali, qualcosa in qualche modo di usuale, che, si sa, accade in quelle parti del mondo».
A poco a poco però, proprio grazie a questi articoli si è aperta la discussione. Proprio su Facebook – che in occasione degli attacchi di Parigi aveva addirittura attivato un safety check come era accaduto solo nel caso di disastri naturali – sempre più persone hanno cominciato a chiedersi perché gli attacchi di Beirut sono stati trascurati, perché il social di Zuckerberg non ha permesso anche alla gente in Libano di fare check-in e segnalare di essere al “sicuro” sul social network.
In Italia a diffondere il tam tam ci ha pensato Valigia Blu, riportando questa lettera da Beirut e cercando di offrire un punto di vista sul tema:
«La gente crede che per noi libanesi sia ormai normale sentir parlare di attacchi. Danno per scontato che vivere in una nazione che vacilla sull’orlo del caos significhi essere pronti a qualsiasi cosa questo caos ci faccia cadere addosso. Ma non è affatto così. […] «È solo una bomba», ho sentito dire da alcuni vicino a me. Sarà sempre ‘solo una bomba’ per tanti libanesi. Morire nelle strade delle nostre città, lontano dalle nostre case, facendo cose che nessuna persona dovrebbe mai fare mentre muore, per quanto raro, è diventato abbastanza frequente per noi da sviluppare una reazione di riflesso, grazie alla quale liquidiamo subito la cosa. Ma non è stata ‘solo una bomba’ stavolta, così come non è mai ‘solo una bomba’».
Sicuramente è così: non è mai solo una bomba. Ma il punto è che un attacco nel cuore dell’Europa ha maggior visibilità perché è percepito come più vicino, ed effettivamente è più vicino, soprattutto lo è per i media occidentali. Non è questione di mere distanze, Beirut è più vicino all’Italia degli Stati Uniti, ma qualsiasi tragedia successa a New York, ci coinvolge e ci sconvolge in misura maggiore di qualcosa che accade in Libano, un altrove per eccellenza. Distante soprattutto dalla nostra capacità di essere immaginato a differenza degli Usa dei quali conosciamo strade e grattacieli anche senza aver mai messo piede in terra statunitense e, a ben vedere, anche la lingua.
In questa divergenza di partecipazione dunque, influisce il fatto che noi occidentali – bisogna ammetterlo – non sappiamo assolutamente nulla di come si vive nel mondo al di fuori dei nostri confini e che effettivamente viviamo convinti dello stereotipo per cui lì, a Beirut, una bomba è qualcosa “all’ordine del giorno”. Come potevamo sapere che non c’era un attentato così dagli anni 90. O meglio come potevamo ricordarlo se percepiamo quella terra come un posto che ha poco a che fare con noi? E poi si tratta anche di una mera legge di mercato e visibilità. Parigi fa più notizia, tanto quanto in genere un film americano viene visto in più Paesi del mondo rispetto a un film italiano.
Alle polemiche diventate presto virali sul web e allo sdegno per non mettere sullo stesso piano le due tragedie, ha risposto il Washington Post con un articolo intitolato provocatoriamente:
«It’s okay if you care more about the Paris attacks than the Beirut bombings.
That doesn’t make you a racist»
Cioè: “È ok se ti preoccupi più degli attacchi di Parigi che delle bombe di Beirut. Questo non fa di te un razzista”. Maxim Mayer-Cesiano, autore del pezzo, spiega:
«Il dolore è un sentimento personale, non è sempre giusto o proporzionato alla demografia mondo. Il dolore non è nella stessa categoria oggettiva di cose come il diritto di voto, la giustizia penale, l’istruzione o lavoro. Non è una questione di giustizia. Le persone possono soffrire il modo in cui vogliono piangere. Se qualcosa li muove più di qualcosa d’altro, che è bene. Molte persone hanno visitato la Ville Lumiére, hanno lasciato lì ricordi, fatto esperienze»
Parigi in poche parole è davvero più vicina e la vicinanza è la prima condizione per provare empatia. E continua: «le tragedie a Beirut e Parigi non dovrebbero avere lo stesso tipo di copertura. Beirut è a meno di un’ora di macchina dalla Siria, un paese devastato dalla guerra civile». Negli ultimi 30 anni Beirut è stata più volte teatro di guerra, quindi per quanto errate e stereotipate siano le nostre percezioni, beh hanno un fondo di verità. Soprattutto se si considera il fatto che, come spiega lo stesso Mayer-Cesiano: «Parigi di solito è una città sicura, nonostante sia passato poco meno di un anno dagli attacchi Charlie Hebdo. È a di più di 2.000 miglia dalle zone di guerra, ed è generalmente concepito come un posto piuttosto difficile arrivare nel cuore dell’Unione europea partendo dal Medio Oriente, anche con l’ondata di profughi.
Gli attacchi di Parigi hanno sconvolto il mondo soprattutto perché hanno ridefinito le nostre aspettative su ciò che è sicuro e ciò che non lo è. Non è una questione di razzismo
Una settimana fa, la gente ragionevolmente aveva aspettative diverse su quale fossero i luoghi più vulnerabili al terrorismo islamico». Inaspettatamente invece abbiamo avuto la carneficina al Bataclan, a Le Carillon, a le Petit Cambodge, luoghi in cui forse in uno dei vostri viaggi avete pure cenato o passeggiato, e le persone uccise sono state più del triplo di quelle rimaste vittime a Beirut. Gli attacchi di Parigi hanno sconvolto il mondo, come già era accaduto per le Twin Towers, soprattutto perché hanno ridefinito le nostre aspettative su ciò che è sicuro e ciò che non lo è. Non è una questione di razzismo. Era piuttosto ovvio che scatenasse l’interesse della stampa internazionale. Diversa invece è la considerazione su come viene affrontato, condiviso e comunicato la tragedia sui social network.
Posted by Mark Zuckerberg on Sabato 14 novembre 2015
Le foto profilo con la bandiera di Parigi per esprimere cordoglio, la Tour Eiffel/simbolo della pace, così come la matita spezzata per Charlie Hebdo o il meme che dichiara «Je suis Charlie» sono cool. Belli, lucidi, quasi come fossero slogan pubblicitari e, soprattutto: pronti all’uso. Pensati a tavolino per diventare virali, simboli di cui appropriarsi – in maniera rapida e indolore – per manifestare pubblicamente la nostra adesione a uno stile di vita. Per richiamare ancora una volta l’attenzione sulla nostra identità. Per dire molto semplicemente “ci sono anche io, non dimenticatevi di me, partecipo anche io”. Sul blog Tagli chiamano tutto questo “marketing del lutto” e lo commentano così:
«Forse in Libano, in Nigeria, ad Haiti pensano: ecco come reagisce l’Occidente alle sciagure che lo colpiscono. Risponde con la pubblicità, con il capitalismo delle emozioni.
Una banda di criminali usa la religione come paravento per le atrocità di cui si macchia, e gli occidentali non sanno dire nulla di meglio che #prayforParis, cioè invitare a pregare e a raccogliersi a loro volta nella religione? E non si rendono nemmeno conto di quanto sia incoerente pregare per la città più laica del mondo, Parigi, che ha compiuto una rivoluzione anche per separare lo Stato e la vita pubblica dalla sfera religiosa? I nostri valori, la nostra storia. Tutto sommerso da una stucchevole superficialità emotiva»
Un minuto si silenzio per loro #ParisAttacks pic.twitter.com/oVIuBsBBcj
— hoabbracciatoalbe (@226cf34ad216487) 14 Novembre 2015
In tutto questo dunque dove è finito l’“Empathy Gap”? Forse colmato dalla stessa stucchevole emotività che ci travolge quando la notizia che “Ehi, esiste anche Beirut, anche lì sono morte delle persone” arriva sulle nostre bacheche, condivisa dagli amici di facebook ansiosi di prendere una posizione. Perché il punto è che, solo quando postare la notizia delle bombe in Libano dice qualcosa di noi, di quanto siamo attenti, sensibili, anticonformisti, solo allora la notizia diventa virale, solo allora se ne parla. Non è la stampa, ma: è l’Ego, bellezza. A proposito: ieri Boko Haram ha fatto esplodere con un attentato kamicaze una bomba in Nigeria, sono morte più di 30 persone, i feriti sono almeno 80. Quanti di voi ne hanno parlato? Ah sì, e poi c’è la storia del cane Diesel rimasto ucciso nel blitz delle teste di cuoio parigine a Saint-Denis, ma quella immagino la conosciate.
R.I.P to Diesel. A police dog that was killed by a suicide bomber today. #PrayForParis pic.twitter.com/C6fDVDQiCg — Relationship Goals (@Relvtionship) 18 Novembre 2015
[social_link type=”twitter” url=”http://twitter.com/GioGolightly” target=”” ][/social_link] @GioGolightly