Per costruire uno Stato serve un esercito e a un esercito servono delle armi. È così che almeno a partire dal 2003 il sedicente Stato Islamico non ha solo tentato di reclutare da ogni parte del mondo foreign fighters pronti a commettere le peggiori atrocità, ma anche un vero e proprio arsenale di fucili, pistole, granate, mine, addirittura sistemi di difesa contraerea portatili. Ma quante sono e da dove vengono le armi di Isis? Chi e perché ha armato il gruppo estremista autore di stragi e crimini contro l’umanità? Molte risposte possono essere ritrovate nel report Taking stock: the arming of Islamic State appena rilasciato da Amnesty International dove si traccia un bilancio completo sui materiali bellici finiti nelle mani di Daesh, oltre a proporre una serie di soluzioni per bloccare la corsa agli armamenti di Abu Bakr al-Baghdadi. Lo studio commissionato da Amnesty a Ares (Armament Reserch Services), un’organizzazione politicamente indipendente specializzata in temi reletivi armamenti e munizioni, è stato condotto analizzando migliaia di immagini e centinaia di video clip di cui si era verificata l’attendibilità girati nei territori siriani e iracheni passati sotto il controllo di Is. Questi materiali hanno permesso di stilare una lista dei vari tipi di armi che attualmente sono nelle mani dello Stato Islamico e di capire quale potesse essere la loro provenienza. Le milizie di Daesh possono contare su un arsenale composto da pistole, rivoltelle e altre armi leggere, mitragliatrici e altra artiglieria, ma anche armi più avanzate come i ManPads, ovvero dei sistemi di difesa aerea portabili a spalla, missili anticarro guidati, veicoli blindati da combattimento, fucili d’assalto come gli Ak russi, gli M16 e i Bushmaster statunitensi. Secondo Ares questo “tesoro a mano armata” sarebbe stato trafugato dai depositi d’armi in Iraq e proveniente da circa 25 Paesi, Russia, Stati Uniti e Cina in primis, ma anche Stati europei come l’Italia. «La quantità e la varietà delle armi nelle mani dello Stato Islamico è l’esempio da manuale di come commerci irresponsabili di armi alimentino atrocità di massa» spiega Patrick Wilcken, ricercatore di Amnesty International esperto di controlli sulle armi, commerci di materiali di sicurezza e violazioni dei diritti umani.
«La scarsa regolamentazione e la mancata supervisione sull’immenso afflusso di armi in Iraq a partire da decenni fa – continua Wilcken – sono state una manna dal cielo per Is e altri gruppi armati simili che, in questo modo, si sono trovati a disporre oggi di una potenza di fuoco senza precedenti». Tutto questo in sostanza è la diretta conseguenza dei trasferimenti irresponsabili che ci sono stati in Iraq già a partire dagli anni 70 e poi dall’80 quando l’allora dittatore Saddam Hussein invase parte dell’Iran di Khomeini dando il via a una guerra che si protrasse fino al 1988. All’epoca infatti a fornire armi a Saddam furono ben 34 Paesi, 28 dei quali non disdegnarono lo stesso commercio anche con l’Iran. Dopo una pausa nel traffico a seguito dell’embargo promosso dalle Nazioni Unite nel 1990, con l’intervento militare Usa del 2003 i depositi iracheni hanno ricominciato a riempirsi di armi senza che ci fosse un efficace sistema di monitoraggio ad impedire che quel materiale finisse nelle mani sbagliate. Ad aggravare la situazione hanno poi contribuito anche la carenza di sorveglianza dei depositi militari, facilmente assaltabili, e la corruzione mostrata dai vari funzionari dei governi iracheni che rendevano tutto sommato facile trafugare delle armi o acquistarle illegalmente. Tra il 2011 e il 2013, gli Stati Uniti hanno sottoscritto contratti con l’Iraq per la fornitura di 140 carri M1A1 Abrams, decine di aerei F16, 681 Stinger, dei missili terra-aria che possono essere portati in spalla, batterie antiaeree Hawk e altri equipaggiamenti. Il loro valore si aggira attorno a svariati miliardi di dollari. Solo nel 2014 infatti gli Usa avevano inviato al governo iracheno armi leggere e munizioni per l’ammontare di oltre 500 milioni di dollari e succesivamente le forniture sono proseguite, nell’ambito del Fondo del Pentagono per l’equipaggiamento e l’addestramento dell’Iraq che ammonta a 1,6 miliardi di dollari, comprendendo tra l’altro circa 43.200 fucili M4.
Ora il timore è che tutto questo possa o sia già finito nelle mani degli jihadisti.
Le armi e le munizioni utilizzate da Daesh per portare avanti la Jihad e consolidare l’avanzata in Medio Oriente e trafugate dai depositi iracheni, come abbiamo detto, provengono da almeno 25 Paesi. Gran parte come spiegato sopra era stata originariamente fornita all’esercito iracheno dagli Stati Uniti, ma la Russia e i Paesi dell’ex blocco sovietico non sono stati da meno nel fornire il loro “contributo”. All’epoca il materiale bellico fu acquistato con il petrolio oppure oggetto di accordi presi fra il Pentagono e la Difesa irachena e di donazioni da parte della Nato. Quando poi i depositi sono finiti in mano dello Stato Islamico anche le armi sono passate a Is o, se così non era, venivano comunque acquistate illecitamente da trafficanti e funzionari corrotti. Secondo Wilken: «Ancora una volta dobbiamo constatare che per inviare armi in regioni politicamente instabili e in stato di guerra sono fondamentali un’analisi del rischio da parte di esperti e misure di riduzione del danno. Entrambe sono procedure piuttosto lunghe e complesse che richiedono verifiche approfondite. Una delle cose che va appurata ad esempio è proprio la capacità dell’esercito del paese destinatario di sorvegliare e custodire efficacemente i depositi, oltre che ovviamente rispettare gli standard fissati dal diritto internazionale e i diritti umani». Ad oggi secondo Amnesty, Is avrebbe anche cominciato a produrre in proprio degli armamenti. Tra questi oltre a razzi, mortai e granate, ci sono anche ordigni esplosivi improvvisati, trappole esplosive, autobombe e persino le bombe a grappolo, proibite proprio a livello internazionale. Tra gli ordigni esplosivi improvvisati si contano anche le mine antiuomo, anch’esse messe al bando da un trattato ratificato a livello internazionale.
Il 15 agosto 2014 il Consiglio di sicurezza del’Onu ha rinnovato con la risoluzione 2170 l’embargo sulle forniture di armi al sedicente Stato Islamico e al gruppo armato Fronte al-Nustra, affiliato di al-Qa’ida. Secondo Amnesty International questa misura risulta però insufficiente per contrastare un traffico di armi che sembra non solo fuori controllo, ma anche il mezzo attraverso il quale Daesh mette in atto, con torture e violenze di ogni tipo anche sui civili, un vero e proprio regime di terrore. È per questo che l’organizzazione chiede a tutti gli stati di stabilire un embargo totale nei confronti del governo siriano e dei gruppi armati di opposizione, dove si sta combattendo una guerra di logoramento e le milizie di Is avanzano con il rischio, come è già accaduto in Iraq, di conquistare nuovi depositi di armi o di avere accesso a rifornimenti bellici in modo illegale corrompendo dei funzionari. Secondo Amnesty gli Stati dovrebbero inoltre adottare la regola della “presunzione del rifiuto” nei confronti delle esportazioni di armi verso l’Iraq, ossia autorizzare i trasferimenti solo dopo aver accertato i rischi e l’effettiva capacità delle forze militari irachene nel gestire e tenere al sicuro il materiale, evitando così in ogni modo che le forniture vengano girate a gruppi armati.
Secondo Wilcken: «Le conseguenze della proliferazione delle armi e delle violazioni dei diritti umani in Iraq e nelle zone circostanti hanno già distrutto la vita e i beni di milioni di persone e costituiscono una minaccia ancora in corso. Le implicazioni di una fornitura irresposabile di armi all’Iraq e alla Siria e il rischio concreto di una loro “cattura” da parte di Daesh, devono essere un campanello d’allarme per gli esportatori di armi di tutto il mondo». Tra questi ovviamente non manca l’Italia. Secondo il rapporto di Amnesty International infatti anche il nostro Paese può aver giocato un ruolo non indifferente nell’armare ls, visto che secondo fonti ufficiali statunitensi avrebbe rifornito durante la guerra del 1980-88 sia l’Iraq che, in maniera meno trasparente, l’Iran.
Inoltre come si legge nel report di Amnesty:
Dal 2003, l’Italia ha partecipato alla cosiddetta “guerra al terrore”, nel cui contesto fu concessa ulteriore libertà di trasferire armi all’Iraq, attraverso l’Iraq Relief and Reconstruction Fund, prima, e tra il 2004 e il 2007 l’Iraq Security Forces Fund. Ciò esentava il Pentagono dal doversi conformare a qualsiasi disposizione di legge, incluse quelle relative ai diritti umani. In quegli anni, mentre finivano in circolazione le scorte eccedenti delle forze armate irachene sconfitte e poi congedate, la coalizione guidata dagli Usa firmò contratti per almeno un milione di dollari in ulteriori armi leggere e milioni di munizioni, provenienti anche dall’Italia. L’ascesa dello “Stato islamico” e le sue conquiste territoriali tra giugno e agosto 2014 hanno determinato un grande cambiamento nelle politiche internazionali relative alla fornitura di armi nella regione. Nel 2014, infatti, gli Usa hanno coordinato sforzi congiunti per rispondere alla domanda di armamenti dell’Iraq cominciando a rifornire regolarmente, insieme ad altri 11 paesi europei tra cui l’Italia, anche le forze curde che si opponevano nel paese allo “Stato islamico”.
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