Sono passati più di 50 anni dal movimento per i diritti civili che portò Lyndon Johnson a firmare il Civil Rights Act, le conquiste sono state enormi e diverse, ma il 2015 è innegabilmente stato l’anno in cui il tema delle relazioni razziali, della discriminazione nei confronti dei neri, è tornato prepotentemente sulla scena. L’ultimo episodio è quello capitato a Chicago a natale, quando la polizia ha ucciso due persone, una delle quali per caso, solo pochi giorni dopo le dimissioni del capo della polizia per un episodio simile – e insabbiato. Oppure c’è la decisione del Gran Jury di Cleveland, che nega il rinvio a giudizio per il poliziotto che ha ucciso il 12enne Tamir Rice mentre giocava con una pistola giocattolo. La metropoli dove Obama ha mosso i primi passi in politica è la più segregata d’America, le sparatorie sono all’ordine del giorno e il divario dei redditi tra bianchi e neri è aumentato in maniera costante (cfr. sotto).
La centralità del tema della discriminazione è figlia dei comportamenti della polizia statali e merito di un movimento nato per caso nel 2013, dopo che George Zimmerman, l’uomo che ha ucciso il giovane disarmato e innocente Trayvon Martin perché aveva deciso che era un soggetto pericoloso, veniva prosciolto dalle accuse di omicidio. Quel giorno, il 13 luglio, Alicia Garza scriveva sul suo profilo di Facebook, «Neri, vi amo, ci amo, le nostre vite contano». Una sua amica Patrisse Cullors, che come lei è una attivista per i diritti dei lavoratori sotto-pagati, rilanciò la frase aggiungendo l’hashtag. Che si propagò per tornare prepotentemente in voga dopo che la polizia aveva ucciso Michael Brown e che il mondo aveva visto le immagini di quella morte gratuita. L’ennesima.
I dati: quanti uccisi dalla polizia in un anno?
L’immagine qui sotto ci dice che quest’anno sono morte più di mille persone per mano della polizia e che la percentuale di morti tra i neri è più che doppia rispetto a quella dei bianchi 2,84% per milione di bianchi contro il 6,87% dei neri). In 120 occasioni le persone uccise non erano armate. Lo Stato con più morti pro-capite è il New Mexico, seguono Oklahoma e Washington DC. California, Texas e Florida sono quelli con più morti in assoluto.
(guardian.com e washingtonpost.com)
Lo slogan prese vita in rete, crebbe, BLM chiamò una marcia su Ferguson e decine tra artisti ed esponenti del mondo della cultura scrissero, disegnarono, fotografarono per contribuire all’idea della campagna. Dopo Ferguson non c’è stata una pausa. E se abbiamo sentito parlare di molti altri morti afroamericani a lungo è proprio per questo – e per la nuova attenzione che i media e la politica hanno riservato al tema.
Ferguson divenne l’epicentro di un nuovo movimento: da tutti gli Usa arrivarono attivisti, ci furono giorni di violenze e grandi inviti alla calma. A differenza di altri riots nei ghetti, quello di Ferguson prese presto una forma politica, con rivendicazioni e forme di partecipazione e non solo – ma anche – rottura di vetrine e sassi (o spari) contro la polizia. E Black Lives Matter (assieme ad altri slogan come “Hands up, don’t shoot”, “ho le mani alzate, non sparate”) divenne la parola d’ordine. Non è un caso se proprio quelle tre parole siano lo slogan più diffuso e adottato. Le vite dei neri contano è infatti un riferimento immediato all’importanza delle vite umane, alla necessità di giustizia e controllo, ma dice anche che quelle vite contano quando studiano, lavorano, vivono. Quello slogan, insomma, è una rivendicazione generale.
Ferguson divenne l’epicentro di un nuovo movimento: da tutti gli Usa arrivarono attivisti, nonostante giorni di violenze la situazione è rimasta sotto controllo, rafforzando l’immagine di #BlackLivesMatter
Sono passati degli anni e Black Lives Matter è ancora vivo e vegeto. Sia nel senso di una capacità di mobilitazione pulviscolare e spontanea che non conosce soste, sia nel senso di organizzazione. Gli ultimi episodi sono quelli alla vigilia di Natale: aeroporti e centri commerciali attraversati da manifestazioni nel giorno in cui tutti comprano e viaggiano per tornare a casa. Nelle settimane precedenti c’era stato il presidio permanente davanti a un commissariato di Minneapolis dove lavorano i poliziotti che hanno ucciso un altro nero disarmato. Come per Occupy Wall Street, questo novello movimento radicale per i diritti civili, ha avuto la capacità di dire una cosa che tutti sapevano, far tornare di attualità la discussione su statistiche che tutti davano per scontate, cambiare alcune cose.
I dati: carcere e reati connessi all’uso di droga (ovvero il disastro della War on drugs)
Tra il 1980 e il 2008 (anno record) il tasso di incarcerazione negli Usa è quadruplicato, dopo è leggermente sceso. Afroamericani e ispanici rappresentavano nel 2008 un quarto della popolazione e il 58% delle persone in carcere, nel 2011 il 38% dei detenuti era nero, il 35% bianco, il 21% ispanico. Nel 2013 un maschio nero su 13 è stato in carcere. Un maschio nero ha il 32% di possibilità di finire in carcere, un bianco il 5%.
14 milioni di bianchi e 2,6 milioni di neri usano droghe vietate. I neri che finiscono in carcere per reati connessi all’uso di droghe sono in percentuale 10 volte superiore ai bianchi. Le pene comminate ai neri per reati legati all’uso di droghe sono in media 58 mesi, si tratta di pene simili alla media di quelle comminate per reati violenti (61 mesi).
(Naaccp, Sentencing Project, Pew Research Center)
Non è affatto detto che Black Lives Matter riesca a dare una svolta a una situazione incancrenita e fatta di discriminazione, politiche vecchie e sbagliate città e sobborghi cresciuti separando le comunità e creando quartieri monocolore. Le città, la segregazione geografica prodotta da decenni di politiche pubbliche sbagliate, le scuole cattive, un mercato del lavoro spesso respingente o piatto e anche una cultura del ghetto che non aiuta i giovani neri a emanciparsi non cambiano dalla sera alla mattina. Ma BLM ha qualche chance di cambiare le cose. E comunque, come per OWS, quel che è cambiato è che si parla di nuovo di discriminazione e segregazione, così come dal 2008 in poi, si parla di banche e della necessità di regolarne il funzionamento. Prima non si faceva se non in ristrette cerchie di radicali di sinistra.
I dati: Chicago, la metropoli più segregata
Chicago è un buon esempio di segregazione che peggiora. Le grafiche qui sotto mostrano l’aumentare della forbice tra ricchezza dei bianchi e neri in città e quella relativa all’aspettativa di vita nei quartieri bianchi e neri. Chicago è anche il luogo in cui è più facile morire ammazzati, 500 persone nel 2015, 80% afroamericani (che sono il 70% di chi spara). Un intreccio tra politica corrotta e disponibilità di armi da fuoco e una cultura del ghetto radicata e tragica.
(Brookings Institution, Center for Society and Health, heyjackass.com)
Oggi BLM conta una serie di gruppi in giro per l’America, almeno 30, coordinati tra loro ma senza una leadership vera e propria, alcuni più radicali, altri molto locali, alcuni più affini all’idea di partecipare in qualche forma alla campagna elettorale, altri concentrati sui comportamenti della polizia e su come cambiarli – e fare in modo che le inchieste sulle morti dei neri non finiscano tutte con dei “non luogo a procedere”. Sotto alla stessa denominazione stanno reti di organizzazioni nere che esistevano e lavoravano già prima e gruppi spontanei, ci sono quelli che a Ferguson si scontravano con la polizia e quelli che alzavano le mani facendosi portare via. Chi organizza le cose, le nostre due attiviste della California e la newyorchese Opal Tometi, che era una community organizer di immigrati, mantiene un sito, lancia campagne e petizioni, raccoglie appuntamenti e chiede che per usare il nome slogan si sottoscriva una carta di principi. Tra questi ce ne sono un paio che si rivolgono anche alla cultura machista e un po’ violenta di certo attivismo afroamericano: se le donne e la comunità LGBT nera non è in prima fila, dicono le attiviste, il razzismo lo pratichiamo noi.
Oggi Black Lives Matter conta sparsi per l’America almeno 30 gruppi coordinati tra loro ma senza una leadership vera e propria
Rispetto al movimento degli anni 60, BLM ha due caratteristiche nuove tutto sommato connesse tra loro: l’assenza di leader carismatici e l’uso della comunicazione orizzontale garantito dalla rete e dai social network. Il movimento è senza testa perché non ne ha bisogno proprio grazie all’uso della rete: le persone possono coordinarsi tra loro a distanza, far sapere quel che succede in una città o durante una manifestazione in tempo reale, lanciare petizioni e campagne e parlare con milioni di persone senza bisogno di un sermone della montagna. E poi anche lanciare allarmi, postare video di violenze e renderli virali in poiche ore o coordinare i gruppi a distanza, attraverso le cloud e le chat. Si tratta di strumenti nuovi che rendono il movimento capace di ritrovarsi senza bisogno di fare incontri nazionali ed eleggere grupi dirigenti. Questi si formano man mano nelle città dove succedono le cose o lo diventano grazie a un lavoro ossessivo online.
La presenza in rete e l’abilità di parlare con i media e comunicare in mille forme ha determinato anche l’inizio dei cambiamento nella percezione generalizzata delle segregazione. Da un lato i rapporti tra razze sono tornati a essere centrali nella testa degli americani, sono considerati un problema da affrontare – naturalmente chi è molto conservatore si preoccupa del protagonismo dei neri – dall’altro i media e i centri di ricerca tornano ad occuparsene. Si costruisce così un nuovo senso comune che potrebbe portare a dare una nuova spinta a politiche che cambino le cose.
Già, la politica: averci o non averci a che fare? Naturalmente c’è chi pensa che con i democratici non si debba avere niente a che fare e chi invece vuole fare pressione sui candidati. Come quando un gruppo ha interrotto un comizio di Hillary Clinton, che alla fine dell’evento ha incontrato una delegazione. Gli attivisti non hanno inscenato proteste ma neppure si sono prestati a uno spot elettorale. Hanno parlato di carcere, segregazione e comportamenti della polizia. Pochi giorni dopo Hillary faceva un discorso sul sistema penale proponendo telecamere sulle divise dei poliziotti e un nuovo New Deal per le comunità afroamericane. Sebbene enunciate in forme meno conflittuali con le istituzioni, le idee di Clinton sono quelle avanzate dalla delegazione incontrata. La stessa Hillary decise di smettere di accettare donazioni dalle compagnie che gestiscono le carceri private – un finanziamento che era stato alla base della prima protesta di quelli di BLM a un suo comizio.
I dati: Chicago non è un caso isolato
Un studio della Century Foundation ha individuato una serie di indicatori che rappresentano in maniera plastica una fase negativa per i diritti dei neri nella storia americana.
Il numero di persone che vivono in ghetti e barrios ad alta concentrazione di povertà è quasi raddoppiato dal 2000, passando da 7.2 a 13.8 milioni. La povertà è più concentrata: più di un nero povero su quattro e quasi un ispanico su sei vive in quartieri ad alta concentrazione di povertà. I bianchi che vivono in situazioni simili sono uno su tredici.
(The Century Foundation, Economic policy institute)
Anche con Bernie Sanders, che aveva detto “si le vite dei neri contano ma tutte le vite contano”, c’è stata tensione. Dopo un paio di irruzioni e contestazioni ai suoi comizi, il candidato socialista ha partecipato ad alcune loro iniziative e, anche lui, ha presentato il suo elenco di proposte. Alcuni donatori democratici importanti stanno pensando di finanziare Black Lives Matter perché di certi temi si parli in campaga elettorale e perché il loro attivismo contribuirebbe in maniera decisiva a far andare i neri a votare, questione vitale per vincere in alcuni Stati e niente affatto scontata ora che il candidato alla Casa Bianca non si chiamerà più Barack Obama. Persino alcuni candidati repubblicani hanno avuto parole moderate – se si considera quanto sono di destra e che toni hanno usato in altri contesti – per parlare della prima ondata di proteste dopo Ferguson e dopo Baltimora dove la polizia ha ucciso Freddie Gray, 25enne nero. Poi hanno preso le distanze da se stessi quando il movimento si è rivelato tale.
La mobilitazione è stata costante e un po’ ovunque: da Minneapolis, dove un presidio ha stazionato per giorni davanti alla sede di un distretto di polizia, all’università del Missouri dove uno sciopero della fame degli atleti neri ha costretto alle dimissioni il rettore, dopo una serie di atti di discriminazione.
Continuerà questa attenzione fino alle elezioni e dopo? I repubblicani stanno già parlando della paura della polizia ad affrontare il crimine, parlando di “effetto Ferguson”. La conseguenza sarebbe l’aumento della criminalità e dell’impunità dei reati. Si tratta di un falso: secondo uno studio del Brennan Center nel 2015 il tasso di criminalità è leggermente diminuito, gli omicidi sono aumentati in 14 città dell11% e diminuiti in 11. I repubblicani vanno forte quando la gente ha paura e accusano i democratici di essere dei mollaccioni. O almeno così era in passato. Oggi la composizione dell’elettorato è cambiata, i bianchi sono diminuiti e i giovani delle grandi città non si bevono questo tipo di retorica. Se Black Lives Matter continuerà ad essere capace di dare una spinta positiva alla questione, a mobilitare, parlare, proporre e a contenere i riots – che sono la cosa che scatena politiche securitarie e il terrore dei bianchi che li guardano in Tv – il movimento nato da un post di Facebook potrebbe contribuire a determinare il risultato elettorale e, poi, a premere sulla politica locale e nazionale affinché adotti delle politiche capaci di cominciare a cambiare le cose. Sarebbe una rivoluzione. L’alternativa sono città date alle fiamme, rabbia e repressione.
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