Recentemente è esplosa la querelle sulla cosiddetta “tampon tax”, ne hanno scritto, e ci hanno riso in tanti, compresa Luciana Littizzetto a Che tempo che fa. Tutto è iniziato quando il deputato di Possibile Pippo Civati ha depositato in parlamento una proposta di legge per ridurre l’Iva sugli assorbenti dal 22 al 4% in quanto articoli che una donna è costretta ad usare durante quasi tutta la propria vita. Se da un lato la proposta ha suscitato da un lato risolini e battute sessiste (cosa piuttosto scontato in un Paese come l’Italia dove non siamo certo dei campioni in fatto di parità di genere), dall’altro c’è chi ha preso la proposta seriamente facendo notare quanto il tema fosse già in agenda o discusso da molti stimati governi internazionali, uno fra tutti quello del presidente degli Stati Uniti Barack Obama.
Nel corso di un anno il risparmio che una donna avrebbe con un’iva agevolata sugli assorbenti non andrebbe oltre qualche decina d’euro, ma la questione si fa interessante se si allarga lo sguardo a tutti i prodotti e ci si pongono alcune domande come: quanto sono sessisti i consumi? E soprattutto quanto costa essere donna? La risposta basta a far capire quanto il tema sia più serio del previsto: molto di più che essere uomo. Per esempio da un recente studio condotto nella città di New York dal Dca (il dipartimento per i “Consumer Affairs” che ha il compito di favorire il mantenimento di un mercato equo e vivace) emerge che il genere incide sul prezzo finale di un prodotto e che la disparità fra quelli dedicati agli uomini e quelli dedicati alle donne è notevole. Nel rapporto pubblicato sono stati studiati svariati tipi di prodotti, dai giocattoli e all’abbigliamento per bambini, passando per i prodotti per la cura personale o per la salute dedicati agli adulti e agli anziani. Nel report quindi vengono paragonati i consumi durante un ciclo di vita medio di un uomo e di una donna. Quello che emerge dall’analisi del Dca di circa 800 diversi prodotti è piuttosto evidente: in media i prodotti dedicati al “gentil sesso” costano circa il 7 per cento in più rispetto a prodotti analoghi dedicati ai maschi. In particolare le donne pagano:
• 7 per cento in più per i giocattoli e gli accessori
• 4 per cento in più per i vestiti dei bambini
• 8 per cento in più per l’abbigliamento per adulti
• 13 per cento in più per i prodotti per la cura personale
• 8 per cento in più sui prodotti per la casa di assistenza sanitaria
Da tutti i casi analizzati è emerso inoltre che le donne pagano un prodotto più degli uomini in circa il 42% dei casi, agli uomini capita invece di spendere di più solo nel 18% dei casi. Questo vuol dire che nel corso della vita di una donna, l’impatto finanziario di queste disparità di prezzo di genere è significativo. E lo è ancora di più se si considerano le disparità di salario per cui una donna in media guadagna solo 0.77 centesimi per ogni dollaro guadagnato da un collega uomo. Già nel lontano 1994, lo Stato della California aveva calcolato che le consumatrici grazie al sovrapprezzo pagavano una sorta di “tassa di genere” che consisteva in una spesa annuale di circa 1.351 dollari in più rispetto al normale. E proprio per questo nel 1996 per legge è stata abolita ogni differenza di prezzo sulla base del genere.
A testare invece il sessismo del mercato italiano ci ha pensato invece la rivista il Salvagente. In uno studio condotto nel novembre 2014 infatti si spiega che la “tassa rosa” costerebbe alle donne del Belpaese circa 1000€ in più l’anno. L’aumento anche qui, come negli Stati Uniti, si ripercuote fin dall’infanzia visto che le differenze di prezzo vengono rilevata già dai primi anni di vita sui prodotti di abbigliamento intimo così come su quelli per scuola. «Su un profumo – spiegano i giornalisti del Salvagente – la differenza sfiora anche i 20 euro, mentre le mutandine da bambina possono costare quasi il doppio di quelle da bambino, sul bagnoschiuma non cambia il prezzo ma la versione “for man” contiene 50 ml di prodotto in più». Insomma essere uomini conviene. Eppure, come spiega Anna Usleghi, docente di marketing alla Bocconi: «Potrebbe esserci un effetto boomerang» perché, se è vero che «il differenziale di prezzo di un prodotto legato al genere esiste. In molti casi non si può constatare una differenza produttiva tale da giustificare un prezzo maggiore. Ci sono invece alcuni servizi, penso all’acconciatura ad esempio, dove è invece legittimo attendersi dei listini ‘separati’. Detto ciò le consumatrici hanno sempre una via d’uscita per non pagare la tassa rosa: scegliere un prodotto diverso, magari di un’azienda che non differenzia in base al sesso». Visti i dati non ci sembra quindi così strano e ridicolo chiedere che il Parlamento si occupi di una questione che ha a che fare con l’equità e la parità di diritti. Ma a quanto pare, su questo fronte, al momento in Italia non ci resta che sognare la California.
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