C’è un metodo semplice semplice che funziona da secoli sia nelle famiglie più anguste fino ai macro sistemi sociali per domare la speranza, ammansirla senza traumi e spingerci a scambiare l’accontentarsi con il cedere al ribasso continuo: escludere le alternative. Disegnare tutto ciò che è come potenzialmente nuovo e pericolosamente in arrivo come un sicuro terremoto delle nostre consuetudini sociali ed economiche. Niente di nuovo: è il manuale delle giovani marmotte tradizionaliste e conservatici che vengono allevate laddove si cela il dubbio di avere avuto dalla vita più di quanto si è meritato e quindi si finisce per difendersi per autopreservarsi, illusi che il merito si erediti. Farebbe sorridere se non fosse che qui da noi poi spesso funziona davvero.
Diceva Bukowski: “avrei potuto anche accontentarmi, ma è così che si diventa infelici”. E invece oggi chi non si accontenta è un “signor no”, un “gufo”, un “mistificatore”, un “antipolitico”, un “blablabla” o peggio ancora un “buonista”. Che poi “buonista” di solito si pronuncia tutto duro duro quasi sputacchiante e con l’immancabile riferimento all’organo sessuale maschile. Solo così si pronuncia. E quindi accontentiamoci perché potrebbe andare peggio, perché comunque “è già un piccolo passo” e perché “non c’è di meglio in giro”. La tiritera della mancanza di alternativa (il “There is no alternative” che la Thatcher sventolava con la stessa gioia di chi ha scoperto una sconosciuta formula chimica, nonostante sia una bestiale banalità) ha abbassato la libido della speranza, è il ciproterone acetato per tarpare visioni, ambizioni e obiettivi. Anzi, ultimamente la speranza è diventata una delega politica: diamo il nostro benestare ad un rappresentante delle nostre speranze lasciandole tutte a lui, troppo presi, noi, a sbarcare il lunario e racimolare diritti.
Il “non c’è un’alternativa” è diventata una fede. Ci affidiamo (sia nel campo materiale che nel campo spirituale) a chi ci giura che potrebbe solo andare peggio. E così siamo in un Paese in cui abbiamo già messo la carta igienica del lunedì negli zaini dei nostri figli per i cessi della scuola, inizieremo fideisti una settimana lavorativa con la solita gratitudine per avere avuto il diritto di avere il diritto di avere un lavoro, leggeremo partecipi le novità del reality finanziario dei ricchi del mondo, avremo la nostra sana occasione quotidiana di una bella indignazione come bromuro contro l’insoddisfazione, assisteremo con garbo alle ramanzine etiche dei bauscia e dei ricattatori e dei corrotti e corruttori e dei pluridivorziati e dei pervertiti ognuno con la sua tavola dei suoi comandamenti, ci dispiaceremo (ma con mitezza) dei prossimi rifugiati caduti a picco in fondo al mare, reciteremo la farsa di essere contemporaneamente piccoli imprenditori a partita iva (nei diritti) e minatori d’altri tempi (nei doveri), ci berremo qualche marchetta televisiva come storico primo passo di qualche riforma per poi dirci che insomma “questo c’è, per ora”.
Strano zibaldone la vita: i nuovi che invecchiano appena arrivano al comando da nuovi diventano i migliori prosecutori degli altri. E poi loro, i nuovi, dopo avere concimato l’illusione del cambiamento ci dicono che basta, che non è più ora di progettare, è ora di fare. Meglio: di lasciarli fare. Ecco io una cosa che insegnerò ai miei figli, una delle poche cose che ho imparato e mi sono appuntato un po’ dappertutto, è di diffidare di chi ci dice che “non c’è alternativa”. Perché di solito, lui, quello che cerca di convincerci, la conosce già e ha imparato ad averne paura. Buon lunedì.