Come è accaduto per i cinema e poi per le librerie, come sta avvenendo per le Poste che prevedono di cancellare quasi 500 sedi, un’altra realtà ramificata su tutto il territorio nazionale e che ancora oggi continua a rappresentare un presidio sociale, sta scomparendo da alcune zone e quartieri d’Italia in un loop di vuoto informativo e culturale. Tanto per dare l’idea, nella provincia di Messina hanno chiuso definitivamente le rivendite di alcuni Paesi: comprare un giornale è un miraggio in oltre venti Comuni dei Nebrodi. La stessa situazione si sta verificando nelle province di Foggia, Pistoia e Pisa.
Dopo otto anni di crisi economica il numero dei giornalai che mollano la spugna è impietoso. Le edicole attive in Italia sono circa 30mila. Dal 2001 a oggi hanno chiuso in 13mila, di cui quasi 7mila negli ultimi due anni.
Una crisi che dipende certamente dal calo delle vendite di quotidiani e periodici, dalla virata sul web, da una popolazione che si droga di Tv e legge sempre meno ma anche dalla mancanza di attenzione nel preservare un rete che nonostante tutto resta il principale canale di distribuzione per la carta stampata e un legame cruciale tra la piccola e media editoria con i territori.
Ad incidere è senza dubbio il diverso peso specifico dei soggetti in campo: editori, distributori ed edicolanti. I giornalai, nella filiera, rappresentano l’ultimo anello della catena e in questi anni di crisi (con percentuali sulle vendite sempre più risicate e su quantitativi di merce venduta drasticamente ridotti, spese fisse sempre più alte e la richiesta da parte di alcuni distributori di far accendere delle fidejussioni per tutelarsi da chi molla da un giorno all’altro) si sono ritrovati a impugnare il coltello dalla parte della lama.
Il settore sconta poi il processo di ristrutturazione e concentrazione della rete di distribuzione avvenuto negli anni scorsi che ha prodotto una pluralità di monopoli di fatto nei quali un unico distributore locale fornisce i prodotti editoriali a una data zona e il singolo edicolante si trova «in una posizione di dipendenza economica non avendo la possibilità di reperire altrove le pubblicazione» spiega Amilcare Digiuni, responsabile organizzazione del sindacato dei giornalai Sinagi. Cosa che, in caso di disaccordo, può mettere il giornalaio nella posizione di «non contestare temendo ritorsioni».
«Il lavoro dell’edicolante è un lavoro complesso e suscettibile di disguidi ed errori», racconta Digiuni, se però il distributore locale approfitta della sua posizione dominante può rendere la situazione legata alla crisi economica «intollerabile», conclude. La decisione da parte dei distributori di sospendere le consegne al singolo edicolante quando i conti “dare e avere” non tornano è sempre più diffusa in alcune aree. E che qualcosa non funzioni è lampante.
Fino agli anni Novanta il principio che regolava il sistema distributivo prevedeva che le copie giungessero ai punti vendita con il pagamento a vendita conclusa e dietro restituzione dell’invenduto. Successivamente è stata «pesantemente accresciuta la pratica degli anticipi», ha certificato l’Antitrust che nella stessa indagine scriveva: «per alcuni prodotti vi sarebbero rese che sfiorano il 90% e, malgrado la vendita sia così limitata, la fornitura resterebbe costante».
«Nel tempo – racconta Margherita un’edicolante romana – è cambiato modo di lavorare, prima si pagava giornalmente. Poi si è passati al conto settimanale. Questo sistema va bene solo se il distributore di turno mi viene incontro quando sto in difficoltà». Ma se non si trova una soluzione per risolvere il problema e le consegne vengono sospese si rischia di percorrere una strada senza via d’uscita. Margherita, con uno di questi distributori locali, è «intruppata contro un muro. Io sono sospesa dal 2010 e i principali giornali non li ricevo più. Vorrei risolvere, gli ho fatto una proposta: mi continui a fornire, mi fornisci di meno, mi fai pagare giornalmente che riesco meglio, e ti dò 100 euro in più a settimana che vanno per il vecchio debito in modo che l’esercizio rimane aperto. Ma tu devi continuare a scaricare i giornali sennò come faccio a rientrare?”. Ormai “siamo tanti in questa situazione. C’è una sofferenza? Dovresti aiutarmi a superarla, non dovresti mollarmi».
A rendere ancora più difficile la situazione è arrivata qualche mese fa un’intesa tra la Fieg e i principali distributori. Un accordo che parla dei giornalai ma sul quale loro non sono stati interpellati e contro cui gli edicolanti hanno protestato in un assordante silenzio. Un accordo che i giornalai vedono come fumo negli occhi: verranno individuate “unilateralmente” le rivendite con “redditività negativa”; partirà l’informatizzazione della rete ma, nonostante la legge lo preveda, l’operazione non è pensata per essere condivisa; i distributori potranno aprire e soprattutto gestire punti vendita in proprio. Il giudizio di netta critica è stato riassunto in un documento inviato al Dipartimento per l’editoria di Palazzo Chigi: gli editori e i distributori che l’hanno firmato, si legge, “trattano la filiera come fosse affare loro, da negoziare privatamente, una sorta di proprietà esclusiva”.
Sul tavolo ora c’è un progetto di legge di riforma dell’editoria che contiene anche un pacchetto di norme sui giornalai. Il testo, frutto del lavoro del dipartimento, è stato presentato inizialmente dal Pd, ed è stato modificato in commissione Cultura della Camera. L’approdo in Aula a Montecitorio ci sarà lunedì 22 febbraio.
Certo la riforma è ancora in prima lettura, dovrà passare anche all’esame del Senato e non si possono escludere passi indietro. Al momento però il Parlamento sembra aver raccolto in parte il grido di allarme lanciato dai sindacati degli edicolanti approvando alcune modifiche.
Resta la previsione della «liberalizzazione della vendita dei prodotti editoriali» che preoccupa i giornalai perché rischia di dare il colpo di grazia alla rete. La futura liberalizzazione viene resa però più soft tentando di riconfermare alcuni divieti. Ad esempio, si riafferma che sono nulli i patti derivanti da abuso di dipendenza economica e si fa espresso riferimento al «divieto di sospensioni arbitrarie delle consegne».
Verrà promosso un “regime di piena liberalizzazione degli orari di apertura dei punti vendita” ma anche consentita “la rimozione degli ostacoli che limitano la possibilità di ampliare l’assortimento e l’intermediazione di altri beni e servizi, con lo scopo di accrescere le fonti di ricavo potenziale” trasformando di fatto il mestiere del giornalaio.
E per quanto riguarda l’attesa informatizzazione della rete viene precisato che tale operazione dovrà avvenire “in maniera condivisa e unitaria”. Cosa peraltro già prevista dalla legge (che eroga un contributo d’imposta per realizzarla) ma evidentemente si è valutata la necessità di doverlo ribadire.
Infine, dal gennaio 2017, scatterà una norma che punta a rivoluzionare la parità di trattamento (che è l’obbligo per i giornalai di mettere in vendita tutte le pubblicazioni che vengono mandate in edicola da grandi e piccoli editori): rimarrebbe il vincolo di assicurare la parità di trattamento senza discriminazioni tra prodotti editoriali ma solo in occasione del loro primo lancio sul mercato. Una previsione che va incontro a quanto chiedono molti edicolanti che considerano la parità di trattamento una gabbia. Anche se Massimo, a 60 anni, dalla sua storica edicola di via Merulana a Roma, si accontenterebbe di poter discutere sulle quantità: «sono circa 4mila le testate presenti in edicola. Se so che qui comprano solo due settimane enigmistiche perché me ne scarichi trenta? Le edicole non sono magazzini», sottolinea aggiungendo invece di ritenere la parità di trattamento un principio sacrosanto «a tutela del pluralismo».
© foto di Maila Iacovelli