«Stiamo arrivando», mi scrive Francesco in chat. E invia un selfie che lo ritrae insieme ai rifugiati in partenza per Roma dal Libano dove vivevano accampati a Tel Abbas, un piccolo campo profughi sorto spontaneamente come tanti altri in quella zona per accogliere chi scappa dalla guerra in Siria, distante solo qualche chilometri da lì. Provengono da diverse città siriane: Homs, Aleppo, Hama, Damasco e Tartous. E noi siamo lì, all’aeroporto di Fiumicino, ad aspettarli. Arrivano alle 7 del mattino, e per quattro ore sono in balìa dei controlli. «Ecco fatto, ora abbiamo dimostrato che i corridoi umanitari si possono fare. E anche senza spese per i governi» dice Francesco Piobbichi, che fa parte della missione di questo viaggio chiamato Mediterranean Hope, il primo corridoio umanitario d’Europa per «impedire lo sfruttamento ai trafficanti di uomini e concedere a persone in “condizioni di vulnerabilità” un ingresso legale con visto umanitario e la possibilità di presentare richiesta d’asilo», spiegano gli organizzatori. Il progetto pilota è stato realizzato grazie all’impegno e all’accordo tra il governo italiano (Farnesina e Viminale), la Comunità di Sant’Egidio, la federazione delle Chiese evangeliche (Fcei) e la Tavola Valdese. È previsto l’arrivo di mille rifugiati in due anni e non solo dal Libano, ma anche dal Marocco e dall’Etiopia.
Il primo a entrare è avvolto in una bandiera della pace, tiene in braccio suo figlio, che non avrà più di 4 o 5 anni. È un attimo, e sono tutti dentro la sala allestita per la conferenza stampa. Si mischiano ai giornalisti, sono loro a prenderci le mani, per ringraziarci di essere qui. In Italia. Del milione e 200mila esuli siriani che vivono in Libano (su una popolazione libanese di 4 milioni), quelli arrivati ieri nel nostro Paese sono 93: ovvero 24 famiglie con 41 bambini che – in una manciata di secondi – ci circondano, scorrazzano per la sala bianca dell’aeroporto, tra agenti in divisa e reporter armati di ogni sorta di telecamera e macchina fotografica. Arrivano da diverse città siriane: Homs, Aleppo, Hama, Damasco e Tartous.
Tra di loro scorgiamo Mirvat, che ha 24 anni e viene da Aleppo. Parla perfettamente inglese e, avvolta nel suo cappotto blu e nella sua chioma bionda, in molti la scambiamo per un’operatrice. Poi c’è Badee’ah, che di anni ne ha 53 e chi stava con lei a Tel Abbas chiama “mamma”. È scappata da Homs con i suoi parenti, per un po’ di tempo è rimasta accampata in una baracca a Tripoli in Libano vicino alla frontiera siriana. Molti di quelli che sono qui devono a lei la pazienza di aver aspettato il volo per Roma, senza cedere alla disperazione e senza arrendersi a pagare un trafficante per imbarcarsi. Anche Diya arriva da Homs, che ormai è ridotta solo a un cumulo di macerie e per molti è solo una città fantasma. Diya è ancora un bambino e entra nella stanza dell’aeroporto avanzando fiero e sorridente sulle sue stampelle, quelle con le quali è costretto a camminare perché è rimasto ferito durante un’esplosione.
Tra la folla spunta anche qualche mazzo di fiori, molti parenti sono arrivati da tutta Europa per accogliere i loro cari. Come la nipote di Mariam, la più anziana del gruppo. Ha 71 anni e viene da Al Hasaka, nord della Siria, è scappata non appena è arrivato il Daesh ed è riuscita a raggiungere un campo profughi in Libano, qui a Fiumicino ad aspettrala c’è una sua nipote che adesso vive in Svezia.
«Non hanno solo viaggiato in sicurezza. Ma sono qui per avere un futuro», tiene a sottolineare Marco Impagliazzo. E adesso verranno ospitati in case e strutture di accoglienza di Emilia Romagna, Lazio, Toscana e Trentino.
«Welcome everybody», ha detto il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, presente alla conferenza stampa per rappresentare il governo. E si è augurato che questo sia un esempio che l’Europa deciderà di seguire. Ma un impegno esplicito da parte del governo non è arrivato. A fine conferenza, poco prima di andare via, un’operatrice comunica – in arabo – le imminenti destinazioni: Trento, Torino, Reggio Emilia, Firenze Aprilia, Roma. Sul pullman troveranno un pranzo al sacco. E una nuova vita, in Italia, che, per almeno questi 93, non ha significato dover attraversare l’inferno blu del Mediterraneo.
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