«Per me l’utopia si concretizza nel portare l’arte a cambiare non solo le forme estetiche ma anche l’etica», racconta l’artista che dal 17 al 19 marzo ricostruisce la sua mela simbolica a Milano aprendo un cantiere per un futuro partecipato e sostenibile della Milano post Expo.

L’utopia come tensione verso la realizzazione di una società più libera e più responsabile è uno dei fili rossi che percorre tutta l’opera di Michelangelo Pistoletto, maestro dell’Arte Povera che dagli anni 50 a oggi non ha mai smesso di fare ricerca. Intrecciando un dialogo costante con le nuove generazioni, che ha assunto una forma concreta nella Città dell’arte, grande cantiere delle arti a Biella, aperto ai giovani di tutto il mondo. «Per me l’utopia si concretizza nel portare l’arte a cambiare non solo le forme estetiche ma anche l’etica», racconta l’artista che  dal 17 al 19 marzo ricostruisce la sua mela simbolica a Milano aprendo un cantiere per un futuro partecipato e sostenibile della Milano post Expo.

«L’utopia che si esprime attraverso l’arte non è solo una fatto personale, ma riguarda tutti. L’arte in questo modo diventa un fenomeno interattivo sul piano sociale. Certo – precisa Pistoletto – non avviene per caso, bisogna lavorarci. Pensando a una società rinnovata, resa migliore, più umana, attraverso la capacità di creare». L’utopia artistica di Pistoletto dunque nasce dalla realtà, dal rifiuto dell’ingiustizia sociale, dal rifiuto della violenza e della distruttività umana anche nei riguardi del pianeta. «L’utopia per me non è qualcosa di astratto», spiega l’artista. «È quella cosa che nasce da una problematica di fondo, da una critica, e sboccia in un desiderio, in un pensiero, in una visione che vuole cambiare le cose. Nella storia, va ricordato, ci sono state anche utopie “diaboliche”, negative. La mia idea di utopia è il contrario: è ricerca di equilibrio, di equità, è trasformazione del conflitto distruttivo in una dialettica pacifica, è capacità di convivenza». Ma non c’è telos nella storia per cui tutto questo si realizza da sé. Bisogna avere idee chiare e «darsi molto da fare per trasformare l’utopia in realtà».

Love difference nasce dal progetto di far dialogare tutti i popoli del Mediterraneo?
Love difference, amare le differenze, è un movimento artistico per una politica inter-mediterranea. È nato in un momento in cui c’erano tensioni ma non erano ancora esplose. Ora più che mai diventa importante questa idea di attività interattiva in quella zona del mondo che è diventata cruciale per la società umana. Ma oggi è più difficile proseguire nelle attività che ci eravamo proposti. Buttarsi nella mischia quando c’è violenza non serve molto alla cultura, bisogna lavorare da distante, intorno, soprattutto nell’educazione, nella formazione delle nuove generazioni perché nascano esigenze diverse. E non è facile. I poteri forti delle economie remano contro. Le religioni sono dei retaggi molto pesanti in questa situazione.


Parlando di nuove generazioni a Roma, di recente, lei ha incontrato un pubblico di bambini. Come è stata questa esperienza?
I bambini sono meravigliosi, sono pronti, capiscono tutto. Certo se si comincia a parlargli come fossero dei professori che devono conoscere la storia dell’arte allora non funziona. Bisogna parlare con loro in modo semplice, chiaro. Così finiscono per capire anche gli adulti. Perché non è che gli adulti capiscano poi tanto di quello che l’arte sta combinando oggi. E nemmeno gli artisti sono molto espliciti nel dire quello che fanno. Durante l’incontro erano entusiasti, tutti quanti con le mani alzate per far domande. Vuol dire che il feeling si era stabilito.

Dopo i primi autoritratti su fondo dorato, i quadri specchianti hanno assunto grande importanza nel suo lavoro. I suo primo autoritratto allo specchio nel 1962 è stato un po’ definire il proprio volto, la propria identità come artista?
Lei mi fa una domanda chiave sull’identità per l’artista. Nella storia gli artisti hanno cercato di riconoscersi nell’autoritratto. Il pittore, lo scultore, sono sempre stati in grado di riprodurre fedelmente ciò che vedevano, la vita, la società, ma mai se stessi. Questo separare se stessi dal mondo era un problema che mi toccava a fondo. Nel fare l’autoritratto sono l’uomo della solitudine. Ho visto pian piano che cambiando il fondo, cambiando il materiale, riuscivo a trasformare la tela in un raccoglitore di riflessi che poi muovevo, usando materiali sempre più specchianti. Così sono arrivato alla specularità vera e propria e a vedere l’identità che ha a che fare con il vivere tutti insieme. L’identità che non è più la solitudine, l’identità nell’incontro con l’altro, quella è stata per me l’identità. Nei quadri specchianti entra il pubblico, la vita, lo spazio, il tempo. Da lì è nata la mia ricerca di interconnessione fra arte e società.

Come è nato il progetto re-birth?
È nato quando il 21 dicembre 2012 alcuni volevano credere nella fine del mondo, perché finiva il calendario Maya. Io allora ho pensato che quella data poteva invece segnare un punto di ripartenza, che poteva essere usato per avviare una riflessione sulla nostra stupida volontà di farci del male impattando in modo troppo forte sull’ambiente. Così è nato il re-birth day caratterizzato da un segno che rappresenta una rinascita. All’inizio hanno aderito al progetto artisti e gruppi di persone. Poi strutture pubbliche e private hanno cominciato a fare di quella data, il 21 dicembre, una ricorrenza. Anche quest’anno ci sono stati tantissimi eventi, sono nate le ambasciate del Terzo Paradiso in tutto il mondo e di recente a Cuba. Mentre il disegno del Terzo paradiso è diventato una grande installazione davanti al Palazzo dell’Onu a Ginevra: le pietre di Paesi differenti stanno tutte insieme sotto questa idea della dualità che si moltiplica nella condivisione. Sta diventando un simbolo importante per chi vuole darsi un obiettivo, seppur lontano, per creare una nuova società. Di cui ognuno è partecipe. Ma forse più che ognuno, direi ogni due, perché bisogna essere almeno in due, da soli non si ha potere, in due siamo già società possiamo già realizzare qualche cosa. Da due possiamo essere quattro, otto. Questo movimento è rappresentato da un triplo cerchio, fatto di due cerchi esterni che trovando una connessione creano il terzo cerchio, un nuovo elemento che prima non esisteva.

Terzo paradiso è un titolo ironico per dire qua,su questa terra?
Ho usato il simbolo dell’infinito, una linea che incrociandosi crea due cerchi. All’interno dell’infinito si crea uno spazio, un cerchio, una parentesi, quella della vita umana, che dura un tempo determinato, finito. Un neonato, che prima non esisteva, nasce dal rapporto fra una donna e un uomo. Possiamo anche fare altri esempi. L’ossigeno e l’idrogeno possono essere i due cerchi esterni che creano l’acqua.
L’umano è, spesso, al centro della sua ricerca artistica.
È vero. Prima parlavamo dello specchio, il bambino riconosce se stesso specchiandosi, diversamente dall’animale. Il gatto nello specchio non vede se stesso, tanto che cerca di passare dietro perché pensa che ci sia un altro gatto là. L’umano è creativo. Ma può anche essere distruttivo. Sulla creatività, sulla ricerca di un nuovo equilibrio, occorre far rinascere il concetto stesso di umano.
L’evoluzione è culturale?
Lo è sempre stata, dall’arte alla scienza, alle politiche ecc. A mio avviso tutto nasce dalla capacità di interpretare e di rappresentare, dalla capacità di trasformare la visione in linguaggio, in comunicazione. @simonamaggiorel