Università in crisi, docenti e studenti che fanno sentire la propria voce. Oggi, 21 marzo, è la “primavera dell’università”, una giornata indetta dalla Crui (Conferenza dei rettori italiani) per “riaffermare il ruolo della ricerca e dell’alta formazione universitaria”. Ma si potrebbe anche definire “primavera di lotta”. Fino a oggi infatti sono stati giorni “caldi”, con il rifiuto da parte di molti docenti di consegnare i dati della Vqr (Valutazione qualità e ricerca) in segno di protesta sia per il blocco degli scatti, ma soprattutto per lo stato di salute dell’università italiana, alle prese con il blocco del turn over e metodi di valutazione che penalizzano gli atenei più deboli e premiano quelli più forti. Oltre che in perenne difficoltà per i tagli alla ricerca. Allo stesso tempo gli studenti protestano per il diritto allo studio negato e lanciano una legge di iniziativa popolare.
Insomma, si fa strada uno scenario di università di serie A e di serie B. Con il Sud e le isole fanalini di coda.
Left nel numero in edicola ha dedicato un ampio sfoglio a questo tema raccontando il caso dell’Università di Cagliari a rischio chiusura e analizzando una ricerca che rappresenta la più documentata fotografia della formazione universitaria dal 2008 (anno della legge Gelmini) al 2015. Si tratta di Università in declino una raccolta di saggi uscita per Donzelli editore. Curato da Gianfranco Viesti è il frutto di una ricerca della fondazione Res e analizza con approfondimenti tutti gli atenei da Nord a Sud.
Ne abbiamo parlato con il curatore sul giornale in edicola.
Per le università italiane serve un’indagine parlamentare, dopo di che si prendano le decisioni più opportune». Gianfranco Viesti, curatore di Università in declino (Donzelli), il sistema universitario lo conosce benissimo. Ed è altrettanto consapevole che nella comunicazione circolano ancora tanti luoghi comuni. I buoni e i cattivi, i “troppi” atenei («non è vero, siamo in linea con gli altri Paesi europei»), i primi della classe da premiare e gli ultimi da penalizzare con i tagli. E soprattutto, nella ricerca (che il 21 sarà presentata all’università di Cagliari e l’11 aprile ai Lincei a Roma) ha constatato «la fuga della politica», ovvero la rinuncia a governare processi complessi ma fondamentali per un Paese.
Ci ritroveremo università di serie A e altre di serie B?
Mah… la cosa che mi dispiace di più è che nessuno abbia mai esplicitato l’obiettivo della politica fin qui seguita. Almeno in Gran Bretagna sono stati più chiari: puntavano alla totale privatizzazione del sistema e lo hanno reso noto. Da noi no.
Tra dieci anni che fine faranno le università del Sud?
Le università meridionali complessivamente sono buone università, stanno nella media europea. Certo, ci sono aspetti che devono far riflettere. Il primo è che i grandi atenei del Nord hanno una qualità diffusa in tutte le materie scientifiche e questo non si ritrova al Sud. Il secondo aspetto è che sono un po’ diversi tra loro come risultati, anche a parità di contesto economico, e da qui emerge l’importanza del reclutamento. Nessuno può negare che in Italia e soprattutto al Sud ci siano stati casi di reclutamento nepotistico. Le debolezze quindi sono anche figlie di colpe gravi. Ciò detto, il sistema va potenziato. Nell’interesse nazionale, perché un Paese è forte se ha basi culturali e scientifiche diffuse in tutto il territorio.
Che cosa bisognerebbe fare per potenziare il sistema?
Intervenire sulla qualità, creando corsi comuni, ma anche differenziando il sistema. La difesa dell’esistente non è una buona politica. Il problema è che con le scelte fin qui fatte il sistema è diventato più “piccolo” e non migliore. Per esempio la quota premiale che era al 20% questo governo l’ha alzata al 30%, cosa che non c’è da nessuna parte al mondo. I finanziamenti vengono dati con criteri che cambiano ogni anno e dunque così è molto difficile migliorare. E poiché le differenze negli atenei sono maggiori che fra atenei, così penalizziamo i gruppi migliori degli atenei più deboli che invece sono quelli da sostenere di più. Io lo chiamo effetto “a palla di neve”. Chi ha meno docenti ha meno corsi, ma chi ha meno corsi ha meno studenti, chi ha meno studenti ha meno soldi, ma chi ha meno soldi ha meno docenti e tutto continua… a palla di neve. Ma questa, ripeto, è una scelta politica molto forte. Per questo l’idea dell’indagine parlamentare serve soprattutto per capire dove andare nei prossimi sette anni.
Il presidente del Consiglio ha annunciato 2,5 miliardi per la ricerca e il ministro Giannini ha lanciato il piano di reclutamento degli 861 ricercatori. Che ne pensa?
Per il momento ho l’impressione che sia una razionalizzazione di risorse che già ci sono, aspettiamo il piano della ricerca, fatto tra l’altro dal governo Letta e fermo da più di due anni. Sul piano di reclutamento dei ricercatori la mia opinione è negativa. Si è deciso ancora una volta di assegnarli (729, ndr) in base alla valutazione della qualità e ricerca (Vqr), ma non la prossima, bensì quella vecchia! Quando si usa questo criterio si sa già dove vanno a finire i soldi, non c’è concorrenza. E poi c’è la ciliegina sulla torta: il resto dei ricercatori (132) sono stati dati due per ateneo. Sembrerebbe una decisione democratica ma non è equa, le dimensioni sono diverse, per alcuni significa avere l’8% in più di risorse umane, per altri, i più grandi, l’1%. Di fronte a queste decisioni sono perplesso: non vedo mutare l’indirizzo per cui c’è un principe sovrano che decide a sua assoluta discrezione, un atteggiamento rispetto al quale la politica – che dovrebbe mediare gli interessi di tutti – non è capace di incidere.
Questo articolo continua sul n. 12 di Left in edicola dal 19 marzo