Il problema della guerra non sono mica i morti. Quelli si seppelliscono, se li portano via i vermi, si piangono un po’ e diventano una foto arrugginita dalle infiltrazioni. Se le guerre facessero solo morti si riuscirebbe a guarirne: con dolore, certo sì, tempo, ma poi ci sarebbe un momento in cui ti rendi conto che è passata la guerra, che si è passati oltre.
La guerra che piove sul mondo oggi (e mica solo in Europa, ma nel mondo, teniamolo a mente) è una guerra di mutilati: gente che si ripulisce dal sangue e scopre di avere un pezzo in meno, forse una gamba, un piede, oppure una scheggia in più che ti tieni nei prossimi anni e peggio una fetta di cervello che smette di funzionare: una fetta di fiducia, una dado sul lato del sorriso, un filetto di ottimismo che ti manca.
I mutilati sono i condannati a sopravvivere: il loro salvarsi è la guerra che continua a sibilare andando in giro con loro. Questa nostra guerra semina mutilati dalle schegge e dal terrore e per questo ci entra addosso come se si infilasse dal rubinetto della cucina. E il terrore ha bisogno di essere maneggiato con cura: può essere prevenuto solo con l’intelligenza, la misura, la cura, la cautela e un’affettività radicata e sociale.
Ogni sconsideratezza è un’infezione delle ferite: gli sciacalli sono i batteri più pericolosi ma anche la fretta è una sutura che lascerà il segno. Per questo credo che queste siano le ore in cui l’ecologia delle parole e dei comportamenti dovrebbero essere una responsabilità. Non c’è nulla di più soddisfacente per un terrorista di assistere alle scene penose di quelli che si mutilano da soli. Solo al pensiero. Senza nemmeno prendersi la briga di confezionare le bombe.
Buon mercoledì.