Preferiva pensarsi un fotografo non professionista, per potersi dedicare li- beramente alla ricerca sull’immagine. Autodidatta, che per anni ha lavorato in una tipografia di Sinigallia, Mario Giacomelli (1925- 2000) è riuscito negli anni a sviluppare una propria originale poetica al tempo stesso semplice, scabra e raffinatissima. Come si può vedere dal vivo visitando la mostra La figura nera aspetta il bianco, (fino al 29 maggio) curata da Alessandra Mauro nel Museo di Roma (in Palazzo Braschi). Prodotta da Forma fotografia e dall’Archivio Giacomelli di Senigallia la retrospettiva propone duecento opere, dalla prima foto al mare agli ultimi scatti. Per conoscere Giacomelli più da vicino, c’è l’intenso reportage di Lorenzo Massi Cicconi, dvd più libro, pubblicato da Contrasto così come il catalogo che accompagna questa antologica romana. Due volumi che permettono di ripercorrere tutta la carriera di Giacomelli, cofondatore del gruppo Misa, insieme a Cavalli, Branzi, Ferroni e Camisa. In mostra sono rappresentati tutti i suoi principali cicli "a tema", iniziati con stile e modi da reportage, come ad esempio "Scanno" (1957/59), che nel 1963 fu acquistato da John Szarkowsky, curatore del Moma di New York dando una svolta alla carriera del fotografo marchigiano e poi "Puglia" (1958) e "Zingari" (1958). E ancora: "Un uomo, una donna, un amore" (1960/61), "Mattatoio" (1960) e "Pretini" (1961/63). Del 1964/66 è uno dei suoi cicli più noti "La buona terra", al centro c'erano vasti campi arati dai contadini secondo i suggerimenti del fotografo: in qualche modo potrebbe essere considerato un esempio di Land art ante litteram, come è stato notato da alcuni critici.Nel 1967, infine, il ciclo "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi": dedicato agli ospizi, accompagnati nel titolo da richiamo alla poesia di Cesare Pavese. L'amore per i versi dei grandi poeti è un filo rosso che percorre tutta la sua opera e nei suoi lavori diventa trasfigurazione lirica, capacità di cogliere la bellezza in ogni angolo di realtà, anche nei luoghi in sé più tristi. Completano il percorso espositivo "Il teatro della neve" del 1984/87 e alcune altre serie dedicate ai paesaggi della sua terra. [huge_it_gallery id="167"] Photo gallery a cura di Monica Di Brigida

Preferiva pensarsi un fotografo non professionista, per potersi dedicare li- beramente alla ricerca sull’immagine. Autodidatta, che per anni ha lavorato in una tipografia di Sinigallia, Mario Giacomelli (1925- 2000) è riuscito negli anni a sviluppare una propria originale poetica al tempo stesso semplice, scabra e raffinatissima. Come si può vedere dal vivo visitando la mostra La figura nera aspetta il bianco, (fino al 29 maggio) curata da Alessandra Mauro nel Museo di Roma (in Palazzo Braschi).

Prodotta da Forma fotografia e dall’Archivio Giacomelli di Senigallia la retrospettiva propone duecento opere, dalla prima foto al mare agli ultimi scatti. Per conoscere Giacomelli piuÌ€ da vicino, c’eÌ€ l’intenso reportage di Lorenzo Massi Cicconi, dvd piuÌ€ libro, pubblicato da Contrasto cosiÌ€ come il catalogo che accompagna questa antologica romana. Due volumi che permettono di ripercorrere tutta la carriera di Giacomelli, cofondatore del gruppo Misa, insieme a Cavalli, Branzi, Ferroni e Camisa. In mostra sono rappresentati tutti i suoi principali cicli “a tema”, iniziati con stile e modi da reportage, come ad esempio “Scanno” (1957/59), che nel 1963 fu acquistato da John Szarkowsky, curatore del Moma di New York dando una svolta alla carriera del fotografo marchigiano e poi “Puglia” (1958) e “Zingari” (1958). E ancora: “Un uomo, una donna, un amore” (1960/61), “Mattatoio” (1960) e “Pretini” (1961/63).

Del 1964/66 è uno dei suoi cicli più noti “La buona terra”, al centro c’erano vasti campi arati dai contadini secondo i suggerimenti del fotografo: in qualche modo potrebbe essere considerato un esempio di Land art ante litteram, come è stato notato da alcuni critici.Nel 1967, infine, il ciclo “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”: dedicato agli ospizi, accompagnati nel titolo da richiamo alla poesia di Cesare Pavese. L’amore per i versi dei grandi poeti è un filo rosso che percorre tutta la sua opera e nei suoi lavori diventa trasfigurazione lirica, capacità di cogliere la bellezza in ogni angolo di realtà, anche nei luoghi in sé più tristi. Completano il percorso espositivo “Il teatro della neve” del 1984/87 e alcune altre serie dedicate ai paesaggi della sua terra.

Photo gallery a cura di Monica Di Brigida