In psicologia l’empatia è «la capacità di porsi in maniera immediata nello stato d’animo o nella situazione di un’altra persona, con nessuna o scarsa partecipazione emotiva». Sapersi mettere nei panni degli altri, avrebbe detto mia nonna Jole che di psicologia non ci capiva un’acca ma riusciva a perdere il sonno per una malattia qualsiasi di qualche sua vicina di casa. Al di là dei tecnicismi certo tutti noi ci auguriamo di avere una classe dirigente che abbia l’intelligenza, il talento e la capacità di mettersi nei panni degli altri, magari di passaggio anche i nostri, visto che si ritrovano spesso a prendere decisioni che riscrivono la drammaturgia del nostro quotidiano.
Ecco, un Paese empatico, ad esempio dopo avere ricevuto Giulio Regeni a pezzetti, con le unghie a parte e un corpo che s’è fatto sindone, ti aspetteresti che abbia affilato gli occhi, i sensi, le arterie e il cuore per ascoltare ogni piccolo smottamento che arriva da quell’Egitto che s’è fatto tritacarne del giovane universitario. Ti aspetteresti almeno che si dicesse una di quelle patetiche frasi preconfezionate per ogni lutto: “perché non accada mai più” ad esempio, torna sempre buone per gli striscioni e le magliette. Ecco: se davvero la verità della morte di Regeni dovremo sperare di recuperarla per una disfunzione del bugiardo conato egiziano almeno, in nome di Giulio, ci sarebbe da appassionarsi ai misfatti di un Paese (l’Egitto) che si propone prepotentemente come il modello di uno stato mendace, incivile, violento e antidemocratico.
Si assiste, in questi ultimi giorni, all’impunito rifacimento dello stesso presepe feroce che si inghiottì Giulio: le strade del centro al Cairo pullulano di poliziotti, agenti in divisa e i ‘mukhabarat’ (gli uomini dei servizi segreti) e basta un alito di sospetto per essere arrestati, caricati su un mezzo militare ed essere trasportati nelle fitte maglie dei servizi di sicurezza. Ogni oppositore è, per Al Sisi, un “forza del male” che va estirpata in tutti i modi possibili e fa niente se tra gli arrestati ci finisce anche Ahmad Abdullah, attivista dei diritti umani e consulente della famiglia Regeni, uno di quelli che la morte di Giulio l’ha presa a cuore, empaticamente, appunto. E fa niente se gli agenti delle forze speciali (che sono, par di capire, la versione egiziana dei nostri mitologici “servizi deviati”) hanno circondato ieri la sede del sindacato dei giornalisti per “invitarli” a non partecipare ai sit-in contro il governo. E fa niente anche se Al Sisi ha deciso di denunciare l’agenzia di stampa Reuters accusata, guarda un po’, di avere diffuso notizie false quando ha scritto che Giulio Regeni era stato arrestato nel giorno della sua sparizione.
A proposito: in una strada in mezzo al deserto, all’ingresso del Cairo, il 24 aprile hanno scaricato il corpo martoriato di Khaled Abdel Rahman. Anche lui, come Giulio, ha il corpo tramortito dalle torture e dalle scosse elettriche ma dopo la terapia intensiva si pensa che si possa salvare. Un Giulio che non è morto per un pelo, insomma. E mentre si contano circa 340 sparizioni solo nel 2015 (sono i dati della Commissione Egiziana per i Diritti e le Libertà), decine di Giulio Regeni accadono quotidianamente in questo 2016. L’italietta, intanto, balbetta timida dopo avere richiamato l’ambasciatore al Cairo (e davvero la notizia non sembra avere destabilizzato nessuno) e non sembra nemmeno indignarsi troppo per gli altri Regeni: hanno cognomi con troppe consonanti e sono mediaticamente poco interessanti. Così l’empatia non si accende e chi se ne fotte: basta il pensiero, si vede, per arrivare alla verità. Ecco, per oggi l’augurio è di riuscire ad essere empatici, ad esempio.
Buon mercoledì.