È una delle città più antiche al mondo. «Damasco vanta una storia millenaria che, senza soluzione di continuità, arriva fino ad oggi». Esordisce così la scrittrice e architetto Suad Amiry, parlando del suo nuovo romanzo, che l’autrice presenta il 2 giugno a Cagliari al festival Leggendo metropolitano. «Ho scritto questo libro per portare i lettori nei vicoli della città vecchia, a sentire il profumo dei numerosi suk che vendono spezie, stoffe e cose preziose, a conoscere lo splendore dei palazzi, dei cortili con fontane e dei giardini segreti. Con i suoi stretti vicoli, le sue case e la grande moschea degli Omayyadi fa da sfondo alla storia della mia famiglia che ripercorro a ritroso nel tempo per tre generazioni».
Nel romanzo intitolato Damasco (Feltrinelli) la scrittrice riannoda i fili della vicenda familiare, di sua nonna e di sua madre, Samia Baroudi, fin dagli ultimi decenni dell’Ottocento, intrecciandola con fatti storici come l’insurrezione palestinese del 1929 «contro la creazione di un focolare ebraico in Palestina». E poi con le altre rivolte che sarebbero seguite dal 1921 al ’36, al ’44, al ’47 fino al 2000 e oltre. A molte di queste sollevazioni suo padre, Omar Amiry, insegnante di origine palestinese, partecipò in prima persona come attivista così, per ragioni di sicurezza, dovette lasciare Giaffa dove era nato e poi Damasco per trasferirsi con la famiglia nella più grigia provincia giordana.
Ma in questo nuovo lavoro, Suad Amiry più che di fatti storici si occupa della trama dei rapporti affettivi e della vita più intima dei personaggi ricreando memorie d’infanzia e narrazioni trasmesse oralmente. A cominciare dal racconto del lungo viaggio, fra emozioni contrastanti, che la giovanissima Teta (in arabo nonna) intraprese da Nablus, nella Palestina rurale, per andare in sposa al ricco mercante damasceno, Jiddo, che aveva vent’anni più di lei. « In questo libro racconto la storia di una famiglia ricca di Damasco, una storia d’amore ma anche di tradimenti e segreti. Dove si incontrano donne forti come mia zia Laila che – ricorda la scrittrice – governava l’intera famiglia». O come la stessa Teta che alla fine si lascia conquistare dalla simpatia del bambino della domestica, nonostante sia nato dal tradimento di suo marito. Oppure come la zia Karimeth che, da nubile, decide di adottare una bambina.
Ripercorrere tutte queste vicende assume un significato nuovo e più profondo oggi che la Siria, purtroppo, è dilaniata dalla guerra. Come in altri romanzi di Suad Amiry anche qui la ricerca letteraria si fonde con l’impegno civile e politico.
«Volevo parlare dei siriani, della loro grande storia, perché oggi sono obbligati ad emigrare ma in Occidente sono visti come mendicanti. È un dolore immenso vedere gli abitanti di Damasco e di Aleppo costretti a scappare per diventare rifugiati indesiderati. Queste persone, che oggi vediamo all’addiaccio, sono portatori di una cultura ricchissima. Nessuno lascia la propria casa se non è davvero costretto. Ogni italiano, ogni europeo, ha un padre o un nonno che è stato rifugiato o emigrante dopo la seconda guerra mondiale. Ma il guaio è che tendiamo ad avere la memoria corta».
Da architetto che ha fondato il Riwaq Center for architectural conservation a Ramallah e continua ad occuparsi del recupero del patrimonio culturale palestinese aggredito dalla colonizzazione, Suad Amiry come immagina una possibile ricostruzione della Siria? «Spero che questa guerra finisca davvero – risponde la scrittrice -. E che al più presto si possa cominciare a ricostruire la città vecchia di Aleppo con le sue splendide case e il suo castello. Vorrei che potessero tornare al loro antico splendore. Così come vorrei che fosse restaurata Palmira. Ma fino a quando il conflitto è in atto i civili siriani hanno bisogno di sostegno, trattiamoli in modo umano».
La casa, come simbolo di un luogo interiore e poi, all’opposto, come prigione sotto l’occupazione israeliana è un tema che Amiry ha trattato in Sharon e mia suocera, dopo essere tornata a vivere a Ramallah nel 1981. Mentre il dolore di dover abbandonare la propria abitazione è al centro del romanzo Golda Meir ha dormito qui in cui racconta la vita dell’esponente israeliana in una casa araba, dopo averne cancellato l’insegna in occasione di una visita di delegati delle Nazioni Unite. Molti palestinesi furono dichiarati “proprietari assenti” delle loro case, abbandonate sotto i bombardamenti israeliani a partire dal ’48 e poi non poterono farvi ritorno, se non col rischio di trovarsi faccia a faccia coi nuovi inquilini ebrei.
La vicenda siriana in qualche modo oggi le rievoca quella palestinese? «Sì perché io stessa sono stata una rifugiata. I miei genitori furono cacciati dalla loro casa, come altri 850mila palestinesi, quando lo Stato di Israele conquistò spazio. Nel mio lavoro c’è questo senso di sradicamento, questa impossibilità poi di sentirsi a casa, nonostante gli sforzi». Essere un architetto che si occupa di disegno urbano, di progettare quartieri e abitazioni «mi ha fatto capire che le case non sono fatte di pietre ma di storie umane, intime, personalissime.Questo – approfondisce Suad Amiry – è ciò che tiene insieme il mio lavoro di tutela del patrimonio architettonico e quello di scrittrice. La mia cultura assomiglia a uno stratificato palinsesto, nato dalla sedimentazione archeologica siriana e da quella palestinese ».
Tornando a Damasco, la bella dimora al centro del romanzo è l’universo in cui si muovono le donne. E se la vita sociale di inizi Novecento era teatro esclusivo degli uomini, nella sfera privata le donne erano sovrane. «Questo non è tipico solo del mondo arabo. Mostrami una cultura in cui la casa non sia il dominio delle donne! Mostratemi un paese in cui gli uomini non dominino la scena pubblica, dall’Italia, alla Francia, alla stessa Inghilterra. Con questo – precisa Amiry – non voglio dire che non ci sia niente da risolvere riguardo alla condizione della donna nei paesi musulmani e nel resto del mondo. Dico soltanto che in molte società giudicate arretrate dall’Occidente ci sono donne dalla forte personalità. Io stessa ne ho conosciute molte. Ma le donne che vengono dal mondo musulmano sono incasellate secondo stereotipi. Per esempio non si ricorda spesso che un famoso architetto come Zaha Hadid era cresciuta nella cultura araba, essendo di origine irachena!». Anche rispetto alla vita intima e affettiva delle donne nel mondo musulmano circolano molti pregiudizi, sottolinea la scrittrice. Nel romanzo, per esempio, tutta la famiglia Baroudi accetta in modo naturale una bambina, Norma, adottata da una delle figlie non sposate. Ed erano gli anni 50. «Una famiglia all’apparenza tradizionale come quella di mia madre si dimostrò aperta di mente. Tutti in casa pensavano che si è madri quando si ama un bambino e lo si cresce, non contava il fatto biologico in sé».
Quanto al rapporto con l’uomo e alla sessualità «sfortunatamente – dice Amiry – tutte le religioni, dall’ebraismo al cristianesimo all’islam sono ossessionate dal corpo delle donne: le suore devono coprirsi la testa, lo fanno anche le ebree e le musulmane. Tutte le religioni monoteiste cercano di controllare la sessualità femminile, si intromettono in questioni private come la decisione di abortire e perfino nel modo di vestire». Questo è il motivo per cui, aggiunge la scrittrice, «la separazione fra Stato e Chiesa è un passaggio fondamentale nella storia di ogni Paese. Quando la scelta religiosa di alcuni diventa fatto politico siamo tutti nei guai, perché ogni credo religioso pretende di essere superiore. E quando qualcuno pensa di essere un eletto o un essere superiore, comincia il razzismo. Iniziano la paura e l’odio per l’altro, il “diverso”, un pregiudizio che è alla base di guerre ancora oggi. Quando un musulmano commette un crimine tutti i musulmani sono considerati criminali, ma quando un cristiano commette un crimine nessuno menziona il suo credo religioso. Non possiamo usare due pesi e due misure».