Dopo un afroamericano, una donna. I democratici americani scelgono di nuovo di rompere con i tabù della loro storia– e di quella di molti altri Paesi – e candidano Hillary Clinton alla presidenza. Nell’anno di grazia 2016 un tabù si sarebbe rotto comunque: l’alternativa a una donna, di potere, era infatti un socialista senza amici potenti. Bernie non ce l’ha fatta ma è destinato a influenzare la piattaforma del partito e, sebbene abbia promesso di continuare a lavorare alla sua campagna, a dare una mano fondamentale alla sua avversaria di ieri.
Nonostante si tratti di un animale politico al 100%, di una figura controversa, criticata per avere un attaccamento “maschile” al potere per il potere, l’idea che una donna possa diventare la persona più potente del mondo è comunque dirompente. Sono passati 32 anni da quando Geraldine Ferraro corse come vicepresidente di Mondale e venne travolta assieme a lui dalla seconda campagna di Ronald Reagan. Dopo di allora ruoli e figure importanti, dalla stessa Hillary a Condoleezza Rice, Agnes Yellen, presidente della Fed, il giudice Sotomayor, ma niente soffitto di vetro infranto. Oggi è diverso.
Non è stato facile, ma stavolta, a differenza del 2008, quando di fronte aveva un campaigner formidabile, con alleati e una macchina elettorale straordinaria, Clinton non ha perso la pazienza, non ha rivoluzionato lo staff a ogni passo falso, ha affrontato quella che si è rivelata una lunga battaglia con pazienza. È stata brava e tatticamente saggia.
La salita è stata difficile per un altro motivo: se le millennials hanno scelto Sanders, infischiandosene del sesso del candidato e scegliendo gli ideali, un pezzo dei maschi bianchi e lavoratori che hanno votato Bernie lo ha fatto (anche, non solo) in antipatia a questa figura di donna potente. Non a caso Trump si è immediatamente lanciato a corteggiare quel voto: il discredito nei confronti di Hillary è perché è una ammanicata con il potere. E si sa, una donna ammaliata dal potere, nell’immaginario collettivo è più sporca, sordida e macchinatrice di un uomo con le stesse ambizioni.
Arrivare fino in fondo a primarie che sono state entusiasmanti soprattutto grazie alla ventata di aria fresca portata da Bernie Sanders, è stato difficile. Ma ora comincia la scalata vera. Per sfondare il soffitto di vetro Clinton avrà bisogno di Obama, già arruolato, e anche del voto dei millennials che in questi mesi hanno “felt the Bern”. Il presidente ha invitato Bernie alla Casa Bianca domani ed è possibile che, nonostante la promessa di andare avanti fino alla convention, Sanders decida di ritirarsi dopo le primarie di Washington – in queste ore molte persone dello staff sono state mandate a casa. Diverse figure, da Elizabeth Warren, al vicepresidente Biden, in ottimi rapporti con Bernie, stanno lavorando per ritessere i fili. Hillary dovrà metterci del suo, regalando spazio a Sanders alla convention e parlando ai giovani prendendo in prestito idee e formule che non sono quelle della sua storia: l’America è cambiata e sta cambiando e se non ne terrà conto non saprà mobilitare i giovani.
Le “single ladies” metropolitane di cui parla il libro blockbuster di Rebecca Traister hanno bisogno di politiche innovative, pensate per la modernità di donne che lavorano, che non hanno necessariamente un marito, hanno votato Sanders in maggioranza, e Hillary dovrà ispirarle nominando ideali e cambiamento. A oggi non lo ha fatto abbastanza. Certo, il confronto con il bulletto Trump aiuterà a ricordare anche alle giovani qual è la differenza tra una donna, anche di potere, e il prototipo volgare del maschio alfa.
Resta un fatto, che non riguarda le millennials: nel suo discorso notturno Clinton ha parlato di sua madre e della dura vita che ha fatto, fin da bambina, abbandonata dai genitori e vissuta con nonni che non erano entusiasti di tenerla. La sua durezza probabilmente viene anche dall’educazione ricevuta e dallo spirito di rivalsa, oltre che dalla difficoltà di aver convissuto con il potere in un ambiente maschile che resta saldo al suo posto.
Ieri notte in California due donne si sono contese la candidatura per il seggio senatoriale dello Stato. Puntavano a sostituire Barbara Boxer, un’altra donna. Si tratta di figure importanti – Kamala Harris, il procuratore generale dello Stato è probabilmente destinata a diventare la prima senatrice afroamericana dal 1999 – ma restano mosche bianche. Le elette in Congresso sono il 20 per cento e a livello statale un terzo del totale. Anche per questo ci sono milioni di donne, oggi, che la storia di Dorothy Rodham la conoscono direttamente: è quella delle loro madri. Le donne delle minoranze che non sono trentenni l’hanno vissuta in prima persona. E non vedono loro di mettere una croce sul nome di una donna a novembre. Quel giorno, auguriamocelo, vinceranno anche loro.