Lo scorso 25 agosto Raimundo Rodrigues Dos Santos e la moglie Maria, mentre tornavano a casa lungo una strada tranquilla, sono stati attaccati improvvisamente e picchiati brutalmente da due uomini sconosciuti. La moglie è sopravvissuta miracolosamente, ma Raimundo è morto poche ore dopo a causa delle percosse. La sua unica colpa era quella di essere un difensore attivo della riserva indigena di Gurupi, – nello stato di Maranhao, a nord del Brasile – che rischia l’estinzione a causa del disboscamento illegale, pratica criminale ma frequente portata avanti dai latifondisti terrieri in tutta la foresta Amazzonica brasiliana.
E la storia di Raimundo non è l’unica: le violenze contro indigeni e attivisti ambientalisti sono frequenti sia nell’Amazzonia che in tutto il Brasile, tanto che il 2015 ha registrato un record di uccisioni, con ben 50 morti, il doppio rispetto al 2014. E il problema non è solo brasiliano, ma globale.
Secondo il rapporto dell’Ong Global witness, nel 2015 sono stati avvenuti 185 omicidi di militanti ambientalisti – circa tre a settimana – il 59% in più rispetto al 2014. il dato peggiore dal 2002, anno in cui cominciò il monitoraggio del fenomeno. Le uccisioni denunciate sono avvenute in 16 paesi: il triste primato spetta all’America latina e al Sud Est asiatico, dove in cima alla classifica vi sono Brasile (50) Filippine (33) e Colombia (26), paesi in cui c’è un consistente aumento della domanda di commodities.
Il caso più famoso è sicuramente quello dell’attivista Berta Caceres, esponente degli indigeni Lenca, che si batteva contro la costruzione della diga di Agua Zarca, in Honduras. La donna, vincitrice del premio Goldman per l’ambiente, fu uccisa in casa mentre dormiva. Inizialmente la polizia sostenne che si trattò di una rapina, ma la verità venne poi a galla. Nessuno è ancora stato arrestato per il suo omicidio. Storie di uomini e donne la cui vita è stata violata perché hanno difeso i diritti delle loro famiglie e comunità.
Michelle Campos ha documentato i crimini portati avanti contro la comunità indigena di Lumad, nella regione del Mindanao, ha denunciato, in un giornale di Manila, la brutale uccisione del padre e del nonno, giustiziati da un gruppo paramilitare con contatti nell’esercito. Un terzo uomo è stato rapito e il suo corpo è stato ritrovato dopo pochi giorni nudo e mutilato a causa delle torture. Il nonno di Michelle, Dionel Campos, portava avanti una campagna contro lo sfruttamento, da parte delle compagnie minerarie, delle riserve di carbone, nichel e oro della zona. Tutta l’area del Mindanao è militarizzata e costellata di conflitti tra popoli indigeni e compagnie minerarie e di agro business, che sfruttano le terre ricche di materie prime senza il consenso delle comunità, spesso con il plauso del Governo. Alcune organizzazioni umanitarie hanno documentato gravi abusi, tra cui esecuzioni extragiudiziali, concentrate in aree in cui le aziende cercano il controllo dei terreni e delle risorse.
Gli indigeni, che difendono in prima persona i territori dallo sfruttamento delle multinazionali, sono i più colpiti, quasi il 40% del totale delle persone uccise nel 2015 (67 in totale). Dati che dimostrano come i nativi subiscano sempre di più le violenze, in consistente aumento, da parte delle compagnie minerarie e agro alimentari, desiderose di mettere le mani sulle terre ricche di risorse naturali ancora intatte. Un caso emblematico è quello del Nicaragua, dove l’aumento della domanda di terreni è la causa principale del conflitto tra proprietari e comunità locali, che ha causato la morte di 12 leader indigeni nel 2015.
Altro caso emblematico è la Colombia. Fabio Moreno è stato latitante sin dal 7 aprile 2015, il giorno in cui il suo amico e collega Fernando Salazar Calvo è stato ucciso davanti alla sua casa. Entrambi gli uomini erano attivisti della riserva di Canamomo Lomaprieta, nella Colombia Centrale. Poche settimane prima dell’attentato sono stati minacciati da alcuni uomini di cessare la loro attività. Il loro gruppo indigeno, lo Embera Chami, ha convissuto in un territorio ricco di oro, praticando uno sfruttamento di piccole proporzioni, rispettoso dell’ambiente. Il Governo colombiano ha poi approvato le concessioni minerarie nell’area senza consultare minimamente la comunità locale. Questo ha aperto la strada all’attività dalle società minerarie come AngloGold Ashanti e all’estrazione mineraria illegale da parte di gruppi armati. E persone come Fabio e Fernando sono state costrette, fin da subito, a convivere con minacce e intimidazioni.
Sono stati in totale nove gli attivisti uccisi in Colombia nel 2015. L’attività delle multinazionali sta portando alla degradazione del suolo, dell’ambiente e all’aumento della povertà e della diseguaglianza. Secondo le associazioni per i diritti umani gli autori dei crimini sono perlopiù gruppi di paramilitari che operano in collusione con le elites locali e governative. Nessuno ancora è stato arrestato per l’uccisione di Fernando, e e Fabio è ancora costretto a vivere in latitanza per la mancanza di protezione da parte del Governo colombiano.
«Una delle ragioni dietro all’aumento degli omicidi è l’impunità, le persone sanno che possono farla franca con questi crimini» dice Billy Kyte, attivista di Global Witness, alla Reuters. E il rapporto documenta anche la compiacenza dei Governi agli interessi dei potentati economici: secondo Global witness 16 assassini sono legati a gruppi paramilitari, 13 all’esercito e 11 alla polizia. E i governi più corrotti sono quelli africani, che marginalizzano gli attivisti e la protesta bollando le azioni degli ambientalisti come anti-sviluppo.
Global Witness alla fine del rapporto da alcuni consigli ai governi per affrontare la situazione. Tra questi, aumentare la protezione delle zone e delle persone a rischio, investire risorse nelle indagini e fare di tutto per portare i responsabili di fronte alla giustizia, cercare di trovare una mediazione tra aziende e comunità indigene e supportare le loro ragioni, riconoscere i loro diritti e combattere la corruzione e l’illegalità che affliggono il settore delle risorse naturali. Secondo l’associazione, i numeri delle uccisioni sono ancora più alti se si tiene conto che gli omicidi avvengono in villaggi remoti o nella foresta pluviale, nel più totale silenzio. Dati preoccupanti, che dimostrano come l’ambiente sia il nuovo campo di battaglia per i diritti umani.