Sarebbe stata la sua quarta partecipazione alle Olimpiadi e lei, Elena Gadžievna Isinbaeva, voleva assolutamente vincere il suo terzo oro olimpico. La campionessa russa di salto con l’asta, la prima donna a varcare il muro dei 5 metri sulla scia del mitico Bubka, figura anche lei tra i 68 atleti dello squadrone di atletica leggera della federazione russa, costretti a rimanere a casa. Il Tribunale arbitrale dello sport (Tas) di Losanna oggi ha respinto il ricorso presentato dagli atleti dopo la sospensione della federazione russa dell’atetica leggera decisa dalla Iaaf (Federazione internazionale dell’atletica leggera) dopo il primo rapporto dell’agenzia mondiale antidoping Wada il 13 novembre scorso. La sentenza del Tas è chiara: se c’è una federazione sospesa gli atleti «non sono eleggibili per le competizioni sotto egida Iaaf». La sentenza del tribunale svizzero conferma quindi la decisione della federazione mondiale. A questo punto la palla passa al Comitato olimpico che deve decidere a giorni se escludere l’intero squadrone russo e non solo i campioni dell’atletica.
A Rio quindi, per il momento, andranno soltanto due atlete russe, che potranno partecipare o come indipendenti o sotto la bandiera russa. Si tratta di Yulia Stepanova, una ottocentista squalificata in precedenza per doping e che ha collaborato con la giustizia sportiva contribuendo a far emergere il bubbone dello sport russo “dopato”. L’altra è Darya Klishina, atleta di salto in lungo, che dall’autunno 2013 si allena e vive in Florida negli Stati Uniti.
«È il funerale dell’atletica» ha detto Isinbaeva, dopo il verdetto del Tas. Le gare dell’atletica leggera senza i forti atleti russi in effetti possono sembrare impoverite, perché da sempre i campioni di Mosca hanno vivacizzato con la loro presenza tante edizioni delle olimpiadi. Ma d’altra parte i report della commissione indipendente che ha agito per conto di Wada non lasciano adito a dubbi. Oltre cento pagine di dati che hanno portato il coordinatore dell’indagine, il docente di diritto sportivo canadese Richard McLaren a invitare il Cio a escludere dalle gare l’intera squadra russa, non solo quella dell’atletica leggera. Sono 508 episodi di positività falsificata su 312 atleti in 30 discipline con molti casi che coinvolgono anche atleti paraolimpici. Il racconto del “doping di Stato” – perché i servizi segreti hanno coperto i casi di atleti dopati – è dettagliato: dalle fiale di urine sostituite attraverso fori attraverso un muro, al micidiale cocktail “Duchessa” costituito da tre steroidi, ingerito e subito dopo sputato.
Il ministro dello Sport russo chiamato in causa in prima persona, Vitaly Mutko, non ha risparmiato accuse indirizzate ai vertici della giustizia sportiva internazionale. «Purtroppo, è stato stabilito un precedente importante con la responsabilità collettiva. La federazione mondiale di atletica leggera è completamente corrotta, tutto è cominciato con loro, le persone nominate nel primo rapporto della commissione indipendente continuano a lavorare», ha detto promettendo di riflettere sulle prossime mosse anche se la conclusione è una sola: «Una decisione politicizzata e senza fondamento giuridico». Che il doping di Stato nasconda un fermento politico non ci sono dubbi. E d’altra parte per Putin in questo momento storico – con la crisi della Turchia e il Medio oriente ancora funestato dall’Isis – l’esclusione della Russia alle Olimpiadi rappresenta anche una sconfitta politica. Vedremo se ad agire in futuro sarà solo la giustizia sportiva oppure se a dettare le sue regole sarà anche la diplomazia delle segrete stanze.