Dopo aver trasformato il Belvedere di Vienna in un lago dove fioriscono inediti fiori di loto creati con giubbotti salvagente, Ai Weiwei si appresta a ricoprire la facciata di Palazzo Strozzi con 22 gommoni arancione ancorati alle finestre. S’intitola Reframe l’installazione omaggio a tutti i migranti che sarà inaugurata il 23 settembre a Firenze, insieme ad una ampia retrospettiva, Ai Weiwei libero, che ripercorre tutto il suo lavoro e la sua lunga lotta per i diritti umani e per la libertà di espressione. Che ha conosciuto momenti drammatici nel 2008 e nel 2011, quando l’artista fu picchiato quasi a morte dalla polizia cinese, dopo essere stato in Sichuan a documentare il disastro del terremoto, denunciando le responsabilità dello Stato per il crollo di abitazioni fragili «come budini di tofu» in una zona sismica.
Tre anni dopo, con una generica accusa di frode fiscale e senza alcun processo, Ai Weiwei fu arrestato e tenuto in isolamento per 81 giorni in un luogo segreto. Solo nel 2015 ha riavuto il passaporto potendo andare a Londra per la sua personale alla Royal Accademy. In quella prestigiosa istituzione inglese ha lavorato l’attuale direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi, Arturo Galansino, curatore di questa retrospettiva fiorentina, realizzata da Fondazione Strozzi con la Regione Toscana, il Comune e Galleria Continua di San Gimignano, tra le prime ad aprire una “filiale” anche a Pechino. «A questa mostra abbiamo lavorato molto e a lungo »dice a Left Galansino.
«L’idea mi è venuta nel 2014, prima ancora di cominciare questo mio nuovo lavoro. Penso che fare una mostra con un simile artista possa essere un buon punto di partenza per una programmazione di Palazzo Strozzi più orientata verso il contemporaneo». Quella di Firenze sarà una esposizione interamente nuova, diversa da quella londinese, «per nostra precisa intenzione ma anche per il modo di lavorare di Ai Weiwei. Le sue mostre non viaggiano come blocchi unitari in posti diversi ma vengono concepite sempre con una attenzione al contesto». Inoltre «la retrospettiva di Strozzi è molto più ampia in termini di trattazione: partiamo dagli esordi della carriera di Ai Weiwei. Ci sarà, per esempio, una sezione dedicata al suo periodo giovanile a New York. Ripercorriamo 30 anni della sua ricerca mostrando alcune delle sue istallazioni più iconiche ed opere nuove site specific». Quanto al tema della migrazione a cui è dedicata un’istallazione in facciata, «nella mostra londinese non era ancora presente». Ai Weiwei l’ha sviluppato soprattutto nell’ultimo anno anche andando di persona a Lesbo.
Particolarmente interessante, a Firenze, sarà vedere come Ai Weiwei articolerà il dialogo fra antico e moderno .«A rendere unica la mostra a Palazzo Strozzi è anche il luogo. Non ha mai esposto in un contesto di questo genere», sottolinea Galansino. «Questo è uno dei più bei palazzi civili del Quattrocento fiorentino, è un simbolo della cultura umanistica e rinascimentale. Esporre qui è una sfida nuova per l’artista ma anche per noi: non avevamo mai realizzato un percorso che unisse tutto il palazzo concependolo come un’unità dalla Strozzina al piano nobile, dal cortile alla facciata». Come farete con le istallazioni di Ai Weiwei che sfidano, per peso e dimensioni, la struttura del palazzo? «Proprio considerando questo aspetto tutto è stato calibrato su misura per i nostri spazi che richiedono un’attenzione particolare rispetto agli edifici moderni nei quali si usa esporre l’arte contemporanea», assicura il direttore e curatore della retrospettiva Ai Weiwei libero che segna un momento di svolta nella ricerca di questo poliedrico artista, architetto, blogger e scrittore, che ha disegnato lo stadio di Pechino come un modernissimo nido e alcuni anni fa ha disseminato la Tate Gallery di migliaia di semi di porcellana, dipinti a mano. «La periodizzazione della sua opera è importante», dice Galansino. «La mostra della Royal Accademy chiudeva un periodo. Ai Weiwei ha ricevuto il passaporto nell’estate del 2015, un mese prima dell’inaugurazione. E da lì nasce un’altra fase della sua attività. Si riappropria della libertà di viaggiare, che per un artista è molto importante. Perde lo status di recluso che ha caratterizzato la sua attività negli ultimi anni e ha determinato il suo essere “presente ma assente” alle sue stesse mostre. Quando era ancora impossibilitato a spostarsi – ricorda il direttore e curatore – sono andato diverse volte in Cina per incontrarlo. Da architetto qual è poteva lavorare bene sulle piante, assieme al suo team molto efficiente. Ma poi ha avuto modo di vedere gli spazi con i suoi occhi. Anche a livello di poetica e di produzione questa ritrovata libertà ne ha cambiato l’azione». Ampliando il suo orizzonte. «Ora Ai Weiwei apre lo sguardo all’Occidente con una ricerca non più solo rivolta a temi cinesi. Ci sono diversi elementi di cambiamento da un anno a questa parte nel suo lavoro». L’aggettivo “libero”, nel titolo della mostra ha dunque un duplice significato. «Si riferisce alla libertà riconquistata dall’artista ma anche al modo totalmente libero e creativo in cu ha utilizzato e interpretato gli spazi di Palazzo Strozzi», conclude Arturo Galansino.
Ma se il lavoro di Ai Weiwei è cambiato e si è sviluppato negli anni, possiamo dire lo stesso dell’arte cinese contemporanea che una decina di anni fa ha conosciuto un vero e proprio boom? Per sapere di più sulla scena artistica cinese nel suo complesso abbiamo rivolto questa domanda a Filippo Salviati, curatore dei testi dell’audioguida che accompagna la mostra fiorentina di Ai Weiwei, ma anche coautore della importante monografia Arte contemporanea cinese (Electa, 2006), che meriterebbe di essere ripubblicata. Negli ultimi anni, dice il docente di storia dell’arte dell’estremo Oriente «poco è accaduto nell’arte contemporanea che siamo un po’ abituati a percepire come un processo dinamico, sempre in grado di attualizzarsi e innovarsi e che invece, non solo in Cina ma nel mondo intero, pare avvitata su se stessa senza aver più la capacità di formulare pensieri nuovi. Meno male dunque che sono ancora vivi e attivi Ai Weiwei, Xu Bing, Zhang Huan, Zhang Peili, Qiu Zhijie i Gao Brothers e molti altri ancora, perché senza il loro lavoro il panorama sarebbe desolante». Viva, dunque, quegli artisti «con alle spalle una vita trascorsa nelle dinamiche della storia che inevitabilmente ti formano: hanno ancora qualcosa, anzi molto, da dire – assicura Salviati -, restano all’avanguardia, nel senso di una ferma presenza radicata nel presente. Anche coloro che, come Gu Dexin, si sono ritirati dal mondo, come i taoisti di un tempo, e hanno smesso, pare, di “produrre arte”: proprio perché l’arte, oggi, è al 99 per cento mera produzione di prodotti soggiogati alle regole del commercio, del mercato». In questo quadro anche il 798, il famoso distretto dell’arte contemporanea a Pechino non appare più così stimolante. «Il 798 non può proporre più niente perché quando un laboratorio diventa un Luna Park la ricerca si arresta. È divenuto un luogo istituzionalizzato» dice Salviati che è tornato a visitarlo proprio la settimana scorsa, «assorbito nel panorama del presente dominato dal denaro, un luogo non di innovazione ma di ripetizione, dove i visitatori si fanno selfie e guardano alle gallerie come negozi: non è più il “non-luogo” di una volta dove l’arte era praticata come esperimento e in semi-clandestinità. Oggi assomiglia a un centro commerciale, dove il “nuovo” è spesso vecchio riciclato. Il 798, insomma, è una esperienza chiusa», Tanto che nella sua recente riproposizione in forma di mostra a Roma a Filippo Salviati è apparso «un vero mostro, una ‘fantozziana’ potiomkin».
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