Lui si difende, attraverso il suo avvocato: dietro le accuse nei suoi confronti ci sarebbe una campagna antidemocratica da parte dell’Iran. Il blogger iraniano Yashar Parsa, al secolo Mehdi Khosravi, è stato arrestato a Dorio, provincia di Lecco, il 7 agosto. Perché il tribunale di Teheran ha emesso contro di lui un mandato di cattura internazionale per corruzione, e adesso ne chiede l’estradizione. Al governo italiano la scelta.
Sul Lago di Como in vacanza, Mehdi Khosravi è stato segnalato dalla reception dell’albergo alla Questura di Lecco, secondo la prassi prevista in caso di allarme terrorismo. E il database dell’Interpol ha segnalato il mandato di cattura internazionale emesso nel 2009 dalla Repubblica islamica dell’Iran: in quell’anno Khosravi era ricercato ed era finito in carcere in Iran dopo i moti studenteschi. Fuggito dalla teocrazia iraniana ha continuato all’estero, come rifugiato, la sua attività contro il regime. Attraverso il suo blog e la sua pagina facebook, sotto il nome di Yashar Parsa, denuncia le atrocità commesse dall’Isis, criticando le scelte del governo iraniano di aver ridotto in miseria il popolo iraniano.
«Chiediamo con urgenza il suo intervento, in favore del Signor Khosravi […] Il Signor Khosravi è un attivista per la democrazia e la tutela dei diritti umani, nato in Iran, ma residente nel regno Unito in qualità di rifugiato politico, perché costretto ad abbandonare l’Iran dopo le dimostrazioni del 2009. Inoltre, il Signor Khosravi è stato negli ultimi tre anni Amministratore esecutivo del Consiglio nazionale iraniano per le libere elezioni». Le proteste che diedero vita al cosiddetto Movimento verde, nato dopo la rielezione dell’uscente Mahmoud Ahmadinejad nel 2009. Duro l’allarme lanciato dal legale del blogger, Sahand Saber: «Mehdi scrive articoli sulla democrazia e la necessità di una separazione dei poteri in Iran», il suo arresto potrebbe «rappresentare un tentativo da parte di alcuni funzionari del governo italiano di ingraziarsi gli iraniani dopo l’accordo sul nucleare della scorsa estate» e, ancora, «il governo italiano vuole lavorare economicamente con il regime. Può darsi che al governo italiano sia stato chiesto di fare ciò».
Le accuse sono pesanti, ma il precedente c’è: ricordate il caso Shalabayeva? La moglie del dissidente kazako rispedita in Kazakistan dall’Italia insieme alla figlia Alua, pur conoscendo le intenzioni del regime asiatico. Quell’espulsione è stata dichiarata illegittima dalla Cassazione.
Bene, anche in Iran c’è la pena di morte. E se l’attivista venisse estradato, sarebbe «incarcerato, torturato e condannato a morte, in qualità di oppositore del regime», ha avvertito Reza Pahlavi nella lettera a Renzi.
«Il consorzio di giornalisti investigativi Icij ha denunciato che l’Iran abusa dell’Interpol per dare la caccia a oppositori politici: nel 2006 l’attivista Rasoul Mazrae, fuggito attraverso la Siria, fu riconsegnato a Teheran malgrado l’Onu lo riconoscesse come rifugiato; fu torturato e condannato a morte», scrive il Corriere della Sera. E secondo il report annuale redatto da Iran Human Rights, nel 2015, 969 persone sono state giustiziate. Stando ai dati raccolti l’anno scorso, nel Paese si è verificato un aumento di condanne a morte del 29 per cento rispetto al 2014. Non solo, proprio il 2015, l’anno in cui l’accordo sul nucleare sembrava aver inaugurato una nuova fase della storia iraniana, improntata alla distensione, è stato quello in cui si è verificato il maggior numero di esecuzioni dal 1990. Da quando Iran Rights Watch stila il suo rapporto annuale (2008) il numero di esecuzioni è cresciuto del 300 per cento.