Non si può dire che lo Stato dell’Unione europea sia granché. E neppure che il discorso del presidente della Commissione sia stato all’altezza delle enormi difficoltà in cui versa l’Europa a 27. Se un anno fa Juncker volava alto e usava molta retorica, specie sulla Siria e i rifugiati, il 2016 è l’anno in cui si ammettono le difficoltà, si propone più Europa e si avanzano alcune proposte di quelle incapaci di scaldare i cuori.
Juncker propone di raddoppiare i fondi gestiti dalla commissione da investire in crescita sostenendo che il piano dello scorso anno si sta rivelando un successo, chiede più controllo comuni alle frontiere e un registro dei passeggeri che entrano ed escono dall’Europa, un passo in avanti verso una integrazione dei sistemi fiscali per evitare casi come quello di Apple, Google e le altre multinazionali che evitano di pagare le tasse per i profitti fatti nei singoli Stati membri dell’Unione e un salto di qualità nella costruzione di un esercito comune, creando un comando europeo e istituendo un quartier generale. In sintesi e per slogan, Juncker chiede di rispondere alla crisi dell’Europa e al «populismo galoppante» con più Europa. A partire dall’atteggiamento nei confronti della Siria: «Dov’è l’Europa nei colloqui sul futuro di quel Paese?» si chiede il presidente della Commissione. La risposta è ovvia: non c’è perché su quella, come su molte altre crisi internazionali, l’Europa ha diverse posizioni.
Ma evita attacchi, aggira ostacoli, chiedendo alla presidenza ceca di turno di cercare di comporre le divergenze, specie sul tema dell’accoglienza ai rifugiati – il vertice di Bratislava è tra due giorni, si tratta di un incontro informale il cui obbiettivo è trovare strade per rilanciare il percorso europeo.
Tra le proposte concrete e piccole che Juncker ha fatto c’è quella di corpi volontari di solidarietà, una specie di servizio civile europeo che se esteso e moltiplicato favorirebbe la coesione e consentirebbe di fare esperienze importanti ai giovani d’Europa – un po’ come ha funzionato l’Erasmus.
Il tema del giorno, forse, è però un altro: la platea che il discorso sullo Stato dell’Unione offre alla furibonda e unitaria offensiva dei nazionalisti e anti-europeisti. Mentre, insomma, Juncker abbassa i toni rispetto allo scorso anno, Farage, le Pen, Salvini e simili usano toni feroci ed esagerati e danno risposte per slogan che si vendono bene. Molto meglio di quelle usate dai popolari, dai socialdemocratici e dalla sinistra, specie quella mediterranea, che critica l’Europa, ma non fornisce risposte con lo stesso appeal truce di quelle della destra nazionalista.
Nigel Farage consola Juncker sulla Brexit parlando di Barroso: «I big boys delle banche si prenderanno cura di lei, mr Juncker, come si sono fatti carico di Barroso quelli di Goldman Sachs». Farage insiste sul successo del suo referendum e attacca con violenza Guy Verhofstadt, incaricato del Parlamento come negoziatore: «Le vostre idee non fermeranno i No, i referendum e l’opposizione di diversi Paesi centro ed est europei. Lei è un nazionalista europe, la sua nomina a negoziare è una dichiarazione di guerra». Il leader dell’Ukip aggiunge, e sarebbe interessante capire cosa pensano nel governo conservatore di Theresa May: «Se davvero volete mantenere il trattato commerciale in cambio della libera circolazione di persone, non avremo un accordo».
Marine Le Pen è ancora più aggressiva, dal punto di vista retorico: «Raramente abbiamo sentito un discorso così senza visione e tanto insipido. Mi è sembrato di assistere all’elogio funebre dell’Unione europea. Lei ignora la enorme spinta alla voglia di riguadagnare la propria identità nazionale. I giovani ci votano e il Brexit ha rotto un tabù. Vi sarebbe piaciuto vedere l’apocalisse abbattersi sui britannici, ma non è andata così. Terrorismo, immigrazione, agricoltura…rispondete solo con più Europa. Una formula senza speranze». Le Pen e gli altri nazionalisti hanno buon gioco a usare terrorismo e islamismo, ma anche la politica economica, le tasse, le banche: «Fate crescere l’islamismo e il terrorismo, avete distrutto la crescita del Sud per difendere l’euro», dice le Pen, che è chiaramente la leader di questa componente: «Lasciate le nazioni liberarsi, cooperare tra loro, lasciate ai popoli determinare i loro destini». La leader del Front National a domanda risponde anche sull’uscita della Francia dall’Unione: «Se diventerò presidente organizzerò un referendum sulla Frexit».
L’italiano Salvini è la fotocopia rozza di Le Pen, ma senza un bravo ghostwriter: «Ennesima farsa ed ennesime parole al vento» quelle di Juncker, «Aiutate e finanziate il terrorismo con ogni barcone che sbarca, con le folli sanzioni alla Russia e dando soldi alla Turchia in cambio di niente». Poi la difesa del gruppo di Visegrad, i governi nazionalisti dell’est che si oppongono alla redistribuzione dei rifugiati: «Alimentate la rabbia popolare prendendovela con governi democratici. È l’ultimo discorso a vanvera che lei fa perché i cittadini si stanno svegliando». Ovvero, io sto con Le Pen, Orban e la Polonia.
Il discorso di Juncker non fornisce risposte alla retorica della destra, così come nessuno, in questi anni ha saputo trovare un discorso ideale capace di contrastare i discorsi di Orban, Farage e compagnia. Ai burocrati di Bruxelles e ai governi nazionali servirebbero idee nuove e diverse dall’austerity e i patti con i Paesi terzi per gli immigrati. Uno scatto su qualche fronte che non sia quello della sicurezza o la paura del terrorismo, strada questa scelta dal francese Hollande. All’orizzonte non si vedono risposte simili. E all’Europarlamento, tranne il liberale Verhofstadt, che almeno aggredisce gli avversari politici con i loro mezzi, azzeccando le battute, non c’è nessuno capace di rispondere ai nazionalisti a tono.