Si è spento stanotte, all’età di novantacinque anni, Gian Luigi Rondi, uno dei testimoni più longevi del cinema italiano dal secondo dopoguerra a oggi.
Dopo un debutto da critico cinematografico al Tempo negli anni ’40, Rondi ha curato la direzione dei David di Donatello per 60 anni, è stato presidente della Fondazione Cinema per Roma e ha ricevuto numerosi incarichi e onorificenze, come la direzione della Siae per volere di Berlusconi, la carica di Cavaliere di Gran croce dell’Ordine al merito, di Grande ufficiale dell’Ordine e di Cavaliere della Legion d’Onore.
Critico, regista e organizzatore di eventi culturali, il valtellinese Rondi ha trascorso tutta la sua vita a Roma e, tra tutte le etichette che gli sono state affibbiate, ha sempre preferito quella di operatore culturale.
Come penna critica del Tempo di Angiolillo – notoriamente impegnato nella crociata moralizzante dei costumi nel dopoguerra-, con un passato di militanza cattolica antifascista, ha sostenuto i film italiani approvati da un giovanissimo Andreotti, all’epoca sottosegretario Dc allo spettacolo. Con il giovane Divo scrisse la legge sulla censura nel ‘49, riprendendo quella del Regime, contro gli eccessi del Neorealismo, contro la concorrenza americana e contro quei film italiani che offendevano la nostra cultura, come Umberto D di De Sica, che Andreotti liquidò con «i panni sporchi si lavano in famiglia».
Nell’anno in cui il ministro dello spettacolo Matteotti nominò Rondi direttore della Biennale di Venezia (1970), registi ed intellettuali si schierarono contro questa manovra politica tutta a favore della DC e delle sue leggi contro l’immoralità, tanto che l’Espresso gli dedicò l’appellativo di “doge nero”. In quella stessa contingenza Pasolini scrisse per lui un epigramma feroce: «Sei così ipocrita che quando la tua ipocrisia ti avrà ucciso, sarai all’Inferno e ti crederai in Paradiso», mentre Laura Betti e Lino Miccichè raccolsero firme per mettere fine «allo statuto fascista della Biennale». Il rapporto con Angiolillo e con la Dc, a detta di Rondi, ha condizionato il suo giudizio su alcune importanti opere cinematografiche italiane, come Le Mani sulla città di Rosi – premiato con il Leone d’oro a Venezia nel 1963 – che accolse inizialmente con un deciso “No, no, no!”, successivamente smorzato con un «Grazie, De Sica». Famosa rimase anche l’accusa di filo-bolscevismo a Miracolo a Milano di De Sica e la lettera pubblica indirizzata ad Andreotti contro l’immoralità dei film di Vadim e Thieu, Claude Autant-Lara e La ronde di Max Ophüls che lui stesso aveva premiato a Venezia.
Il David di Donatello, da lui gestito dal ‘58, ha penalizzato – a causa dei gusti politici del tempo che lui rispettava – alcuni dei maggiori registi italiani, come Fellini, che non è mai stato premiato per 8 e mezzo, Antonioni che ha vinto solo per La notte e Bertolucci che è stato riconosciuto solo per L’ultimo Imperatore. Nonostante questo, il “Signore dei David” è riuscito a stringere delle amicizie da lui ritenute importanti, come quelle con Pasolini e Fellini e più tardi con Rutelli e Veltroni, quando ormai si era iscritto al Pd.