«Quando ho cominciato la mia vita di critico quarant’ anni fa al Corsera, facevo la pagina dell’arte, di critica e discussione, allora era importantissima. Poi sono andato al Sole 24 Ore che mi consentiva di fare articoli più lunghi, di raccontare la storia dell’arte. Da lì è nata l’ispirazione del mio primo libro. Ma oggi vedo che le cose sono cambiate, i giornali hanno ridotto lo spazio per la critica e la storia dell’arte», racconta Flavio Caroli che l’8 ottobre presenta Con gli occhi dei maestri (Mondadori) alle Conversazioni in San Francesco, a Lucca, mentre il 25 ottobre esce per Electa il suo Museo dei Capricci, che raccoglie in un museo immaginario di 200 capolavori. Nei maggiori quotidiani italiani la Terza Pagina, in effetti, è sempre più ridotta, mentre gli inserti dedicati alle grandi mostre sono perlopiù prodotti parapubblicitari pagati dagli organizzatori e scritti dagli stessi curatori. Ma la storia dell’arte è sempre meno presente anche nella scuola, dopo la Riforma Gelmini, purtroppo, più della metà degli studenti italiani non fa più lezione di storia dell’arte.
Eppure professor Caroli l’interesse ci sarebbe. Anche a livello diffuso. I suoi interventi in tv nel programma di Fabio Fazio fanno tre milioni di spettatori.
Addirittura in quei dieci minuti Che tempo che fa registra un milione di spettatori in più. Il che è abbastanza incredibile. L’interesse senza dubbio c’è. Perché la stampa cartacea non lo registra? Temo siano presi dal panico, della perdita dei lettori, e tendano ad andare verso logiche di consumo, poche notizie sulle mostre, poche idee.
È un paradosso che il Belpaese abbia cancellato l’insegnamento della storia dell’arte in molte scuole?
Eccome, se lo è ! Penso derivi da una sottovalutazione dell’arte, dalla paura di ciò che non si conosce bene. Un ministro diceva “con la cultura non si mangia”, tradotto diventa “con l’arte non si mangia”. Invece poi con l’arte ci si abbuffa, perché l’arte convoglia grossi affari e turismo. Dietro questa chiusura credo ci sia un po’ di spavento ma anche una certa ottusità.
Nel libro Con gli occhi dei maestri lei invita a rileggere Longhi, Argan, Arcangeli e altri grandi storici dell’arte del secolo scorso. Hanno ancora molto da insegnarci?
Moltissimo. Tutti mi sconsigliavano, che fai? Scrivi un meta libro? Ma era giusto raccontare chi ci ha trasmesso l’arte come la conosciamo. I quindicimila interventi in media che questo libro registra ogni giorno in rete, sembrano darmi ragione.
Roberto Longhi diceva che la storia dell’arte è una lingua viva…
L’arte è vita, basta raccontare la vita, la vita raccontata dall’arte e si è al cuore della questione, si arriva alla gente. Nel modo più semplice possibile. Chi complica, chi teorizza fa diventare l’arte lingua morta. Anche se lo fa in modo inconsapevole.
Senza Longhi forse non ci sarebbe Caravaggio oggi?
Può anche togliere il forse. Nella presentazione in forma di spettacolo del libro Con gli occhi dei maestri esordisco proprio parlando di Longhi che nel 1912 appena ventiduenne scrive due capolavori, il primo è Caravaggio. Ha fatto sì che i suoi quadri fossero tirati fuori dalle cantine; ha creato il mito per eccellenza dei nostri tempi. In quegli stessi mesi ha scritto un saggio bellissimo su Boccioni. Il futurismo era appena cominciato. Boccioni dice che nel futurismo ci hanno capito poco tutti, meno uno. Poi sarebbero venuti saggi come L’officina ferrarese, I fatti di Masolino e di Masaccio…
Arcangeli le insegnò l’importanza del nesso stretto fra arte e vita?
Lui è stato proprio il mio maestro, sono andato all’università per fare storia dell’arte a Bologna. Presi una tesi sulle lettere di Van Gogh. Ma io volevo parlare di dipinti, di immagini. E poi arrivò Arcangeli, persone così sono miniere di umanità e di sapere e io a quel punto capii come l’immagine e la vita degli artisti era come la vita di un amico. Cose che si capiscono in modo indiretto, da aggettivi, buttati lì per caso.
Ognuno di loro ci ha aperto una strada di ricerca. Briganti era un grande seduttore, lei scrive. Ci ha fatto amare anche il manierismo?
E soprattutto il Barocco. L’ultimo incontro che ho avuto con lui è stato a Kassel: si interessava di arte contemporanea. Erano studiosi che sapevano collegare, con aperture mentali straordinarie.
Lei è stato molto vicino anche a Gombrich?
Siamo diventati amici a Londra, era il 25 luglio del 1975. Il mondo anglo mitteleuropeo viveva al Warburg Institute; lì trovai un altro modo di affrontare le cose che mi affascinava molto, come organizzazione di pensiero, come capacità dell’arte non dico di trovare, ma di cercare un senso alle storie degli uomini. Mi sento più vicino a lui che ai cascami della scuola italiana.
Le immagini contengono un pensiero ma i filosofi lo hanno a lungo negato?
Le immagini sono pensiero. La prima volta che parlai con Longhi mi disse: ragiona sempre in termini di pensiero in figura, mi si aprì il mondo. Dietro ogni figura c’è un pensiero. Fosse anche una linea o un taglio su una tela. Longhi lo pensava ma poi il suo insegnamento è stato tradotto in un grottesco gioco di attribuzioni, che diventa sterile se dietro non c’è un pensiero.
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