Sappiamo cosa mangeranno, chi cucina (il pessimo rappresentante della cucina italiana negli Usa assieme a Linda Bastianich, Mario Batali, tutti soci di Eataly negli states), chi sono gli ospiti e sappiamo che c’è grande amicizia. Abbiamo visto i filmati dell’arrivo come se si trattasse di una visita storica e sappiamo che gli Stati Uniti auspicano che il Sì vinca al referendum costituzionale, così come si auguravano che la Gran Bretagna rimanesse nell’Unione europea. L’ospitata da parte di Obama a Washington in questi giorni è un arrivederci da parte di un fan che ha fatto di tutto per somigliare al presidente Usa e che ne ha mimato gli slogan, inseguito le tattiche, cercato di presentarsi al pubblico italiano come qualcosa di simile. L’impressione è che questa visita sia un gran favore al premier italiano. Il classico favore che si fa a un vecchio amico (l’Italia, non Renzi, che pure a Obama sta simpatico) che è una pedina tutto sommato stabile e centrale in un’Europa che cambia rapidamente.
È facile sbagliare, ma forse qualcosa si può dire sulle ragioni per le quali i due leader si incontrano proprio adesso. Alcuni riguardano l’Italia altre sono questioni più ampie. Partiamo dai primi: la manovra economica, il referendum, la photo-op. L’ultima è la più facile da spiegare: il premier italiano è in un momento di relativa difficoltà, alle prese con una battaglia complicata, quella del referendum, sulla quale ha investito del gran capitale politico e commesso l’errore di agganciarlo al suo destino politico. Errore rientrato, ma che continua a risuonare sui giornali internazionali. Oggi Obama dichiara (o almeno questo è il virgolettato attribuito al presidente da La Stampa): «Se il premier italiano dovesse perdere il referendum costituzionale non si dovrà dimettere». È giusto così, ma farlo dire a Obama significa forse far risuonare meglio il messaggio negli ambienti finanziari che contano e sui media internazionali. Ovvero evitare spread alle stelle e cose simili il lunedì 4 dicembre nel caso a prevalere fossero i No.
Veniamo alla manovra: la prima risposta dell’intervista concessa da Obama a la Repubblica riguarda proprio questa. O meglio, riguarda le divergenze di approccio alla crisi economica tra Europa e Stati Uniti, gli investimenti e l’intervento pubblico americani contrapposti all’austero rigore tedesco. Naturalmente ha ragione Obama (e anche Renzi), la filosofia tedesca è sbagliata e l’intervento del presidente rafforza la posizione italiana dal punto di vista dell’opinione pubblica e della pressione su Bruxelles, che in queste ore riceve e valuta la manovra del governo. Ciò detto, attenzione, Obama sta parlando di quello, non sta dicendo se sia giusto o meno abolire Equitalia, garantire e in che forme l’anticipo pensionistico, tagliare o destinare più fondi alla Sanità. Obama sta dicendo che durante una crisi strutturale l’austerity è sbagliata. E basta. Negli Usa la battaglia ideologica si gioca con i repubblicani, nel mondo con Merkel e Schauble. Con lui ci sono da anni pletore di economisti, grandi giornali economici, governi, associazioni di categoria, sindacati. Che poi né Renzi né nessun governo europeo abbiano saputo proporre piani di investimento e spese capaci di far cambiare passo a un’economia strutturalmente debole è un’altra cosa.
E il referendum? Obama è favorevole al Senato delle regioni? Probabilmente Obama del Senato delle regioni se ne infischia. E pur essendo un raffinato costituzionalista non ha la più pallida idea di cosa ci sia nella riforma costituzionale italiana. Il tema è quello di cui sopra: gli Stati Uniti preferiscono avere un’Italia stabile e la sconfitta di Renzi al referendum la renderebbe meno stabile.
E qui veniamo al fondo della questione. Quando nel febbraio 2012 Mario Monti sbarcò a Washington venne accolto con tutti gli onori e il Time gli dedicò una copertina (“Can this man save Europe?”). All’epoca l’Europa era attraversata da venti di crisi pericolosi e gli Stati Uniti, che si erano ripresi da poco, speravano che il premier tecnocrate contribuisse a calmare le acque. Oggi il discorso è diverso e simile: dopo la Brexit, con Le Pen in vantaggio nei sondaggi in Francia, la Spagna che non ha un governo da mesi, l’Ungheria, la Polonia in mano a partiti di estrema destra, gli Stati Uniti sono preoccupati per la tenuta del continente e, con la tensione che cresce con la Russia e il Medio Oriente in fiamme, non vogliono colpi di scena anche in Italia. Quindi sperano che Renzi vinca il referendum.
Su Libia, Siria, relazioni con la Russia, trattati commerciali, crisi dei rifugiati, gli americani – o meglio i democratici americani e Obama – puntano sul partito della loro famiglia politica. E quel partito, oggi, è guidato da Matto Renzi. Che poi il premier sia anche giovane, dinamico e simpatico a Obama, che il capo della comunicazione Filippo Sensi conosca come le sue tasche la politica Usa e Palazzo Chigi intrattenga ottimi rapporti, che si porti anche Benigni, Bebe Vio sono tutte cose in più, riguardano la photo opportunity, la possibilità di fare una sfilata a Washington prima dell’arrivederci del presidente. Un favore vero, certo. Ma i temi sul tavolo sono altri.