Andrea Pertici è professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Pisa e consulente giuridico. Ha scritto per Lindau La Costituzione spezzata. Partendo dal suo libro lo abbiamo intervistato a proposito della revisione costituzionale su cui andremo a votare nel referendum del 4 dicembre.
Cominciamo dal titolo, La Costituzione spezzata. Cosa significa?
Vuole richiamare l’attenzione sul fatto che la Costituzione è un documento unitario, come sottolineato già ne La Costituzione ferita di Alessandro Pizzorusso, che è stato un mio maestro. È sbagliato dividere la Costituzione in una prima parte da “imbalsamare” e una seconda da fare oggetto di scambio politico. Al contrario – come sottolineava anche Calamandrei – la Costituzione deve essere fatta vivere, deve essere attuata e può essere modificata, ma deve rimanere al di sopra delle scelte politiche del governo e della dialettica maggioranza-opposizione.
Quanto all’iter della riforma, lei nel suo libro fa riferimento ad anomalie e irritualità. Quali?
Si è sempre detto che le riforme costituzionali devono essere condivise tra maggioranza e opposizione, proprio perché la Costituzione deve unire e non dividere. In questo caso, la proposta viene dal governo. Ora, è vero che dal punto di vista giuridico è legittimato a farlo, però così si crea subito una contrapposizione maggioranza-opposizione. Ci si sarebbe potuti aspettare che la riforma potesse nascere in Parlamento. Invece si è voluto a ogni costo che il testo base fosse del governo (perfino nella prima fase, quando con il “patto del Nazareno” risultava coinvolto anche un partito estraneo all’esecutivo).
Quali altre anomalie ha osservato?
La discussione è stata sempre “costretta” entro i paletti fissati dal governo, impedendone invece una davvero ampia su tutte le questioni. Così come è stata impedita all’opposizione la possibilità di incidere. Le uniche modifiche sono state proposte dalla stessa maggioranza e al limite sono il frutto di una contrattazione con la minoranza interna al principale partito di governo, con il risultato che il testo finale, per alcuni versi, è addirittura peggiorato rispetto alla proposta iniziale. Come a proposito dell’elezione dei senatori: alla fine si è arrivati a un testo oscuro che avrà difficoltà applicative notevoli.
Si riferisce all’emendamento sull’elezione dei consiglieri regionali?
Una parte dei senatori del Pd era per il mantenimento dell’elezione dei senatori da parte dei cittadini. Ma questo era il punto su cui il governo era sempre stato più intransigente. Quindi, è stata introdotta, in un comma che non ha nulla a che fare con questo, la previsione per cui l’elezione dei senatori da parte dei Consigli regionali avviene (almeno limitatamente ai consiglieri regionali) «in conformità alle scelte espresse dagli elettori». Questo ha convinto i senatori democratici recalcitranti, in modo piuttosto sorprendente, perché è chiarissimo che l’elezione rimane indiretta e compete, appunto ai Consigli regionali.
Qual è la motivazione politica dietro questa revisione costituzionale?
Fin dal discorso di insediamento del governo Letta, ma ancor prima da quello del secondo giuramento del presidente Napolitano, si è avuto l’impressione che le riforme servissero per scongiurare una durata troppo breve della legislatura che, ricordiamo, si presentava molto debole. Le riforme costituzionali, per il procedimento previsto, richiedono tempo e quindi se si intende portarle avanti la legislatura deve durare.
Cosa c’è che non va bene nella “grande” riforma della Costituzione?
Come dice Pizzorusso sempre ne La costituzione ferita, nemica delle riforme che servono è proprio la “grande riforma” perché questo determina che si mettano dentro un sacco di cose, alcune delle quali possono essere utili altre no, altre addirittura dannose. Ricordiamoci quella del centrodestra del 2006, davvero c’era dentro di tutto. La propaganda la presentava come una riforma che riduceva il numero dei parlamentari, ma questo era un aspetto del tutto marginale. Nel testo si prevedeva dal cambiamento della forma di governo alla modifica del bicameralismo. E lo stesso vale per la riforma di oggi.
Quali sono i principali luoghi comuni da sfatare sulla riforma Boschi-Renzi?
Intanto la riduzione dei costi della politica. Si sono sparate cifre enormi, si è detto che si sarebbero risparmiati un miliardo, poi 500 milioni di euro. Per fortuna una nota della Ragioneria dello Stato, che è un organo interno al governo, quantifica il risparmio in 58-60 milioni al massimo.
Poi viene rilanciata in continuazione la questione della semplificazione, ma qui c’è un equivoco di fondo. L’Italia ha bisogno sì di semplificazioni ma nel funzionamento delle pubbliche amministrazioni, così come ha bisogno di un’amministrazione della giustizia più efficiente. I problemi nel rapporto tra potere pubblico e cittadino non vengono certo dal fatto che le leggi debbono passare dalla Camera e dal Senato. Peraltro, il Servizio studi servizio della Camera dei deputati ha evidenziato come al 30 giugno 2016, di 224 leggi approvate, 180 lo siano state con un solo passaggio alla Camera e uno al Senato.
Perché la riforma non semplifica a proposito di formazione delle leggi?
Mantiene molte leggi bicamerali esattamente come oggi e tra le altre, che seguono diversi procedimenti, quelle che verranno richiamate dal Senato dovranno poi tornare necessariamente alla Camera, quindi i passaggi da due diventeranno tre, senza tempi certi (tranne per il passaggio in Senato). Per di più una parte degli studiosi ritiene che la Camera possa comunque modificare di nuovo il testo, per cui il ping pong rimarrebbe in pieno. L’unica disposizione che introduce un termine è quella del voto a “data certa” per le proposte del governo. Ma allora diciamo la verità: qui non si tratta di semplificazione, è solo lo spostare il potere legislativo verso il governo. Che tra l’altro, mantiene sia i decreti legislativi che i decreti legge, non presenti in altri ordinamenti.
Ma è vero che la riforma costituzionale “ce la chiede l’Europa”?
Questo è un altro luogo comune. Se prendiamo documenti internazionali come uno studio Ocse del 2014 – tra l’altro citato dal governo durante un dibattito parlamentare – o il recente bollettino Bce n. 5/ 2016, vediamo che le riforme chieste all’Italia riguardano soluzioni per garantire la concorrenza, oppure la lotta alla corruzione: questi sono i parametri per cui un sistema può migliorare la propria efficienza.
E le autonomie come sono trattate? L’ex presidente della Corte costituzionale De Siervo ha parlato di “fine del regionalismo”.
Con la nuova composizione del Senato sembra che si dia spazio alle autonomie. Invece è il contrario. Dalla “clausola di supremazia” – per cui lo Stato può intervenire anche nella legislazione di competenza delle Regioni – fino all’accentramento di molte competenze, le autonomie locali sono depresse. Inoltre, c’è un’ulteriore divaricazione tra autonomie ordinarie e autonomie speciali che, nonostante le critiche, vengono mantenute come oggi. E poi di che cosa devono occuparsi i senatori? Lo spiega molto bene De Siervo: questo Senato si occupa di politica estera, di politiche europee, ma non di ciò di cui dovrebbero occuparsi le Regioni. C’è quindi uno strabismo tra la nuova – pur pasticciata – composizione del Senato che si vorrebbe rappresentativo delle istituzioni territoriali e la riduzione delle autonomie.
La riforma viene fatta passare come fine del bicameralismo perfetto ma il Senato rimane…
Mi pare incredibile che qualcuno accosti questa riforma al monocameralismo. Sbaglia chi fa i nomi di Berlinguer, Ingrao, Togliatti e altri esponenti della sinistra che erano sostenitori del monocameralismo. Qui rimane il bicameralismo, con due Camere eterogenee, molto più lontano dal monocameralismo di quanto non sia il bicameralismo perfetto che, infatti, fu scelto alla Costituente come soluzione di compromesso. Due Camere diverse avranno più difficoltà a lavorare insieme. Infatti, quando sento dire che “intanto si fa questo e poi siamo in tempo a correggere”, rimango molto perplesso perché è un’impostazione priva di qualunque rigore e serietà.
Del cambiamento rispetto al 2001 sul Titolo V cosa ne pensa?
Come dice anche Zagrebelsky, la riforma del Titolo V doveva insegnare che una cattiva riforma può avere davvero delle conseguenze negative. Dopo di che seguire le mode a proposito della Costituzione mi sembra agghiacciante. Prima, si insegue il federalismo e quindi si apre un credito sostanzialmente illimitato nei confronti delle Regioni e poi, senza una vera e propria riflessione al riguardo, improvvisamente, dopo una quindicina di anni, si torna indietro.
Nel libro lei, ispirandosi a Calvino, suggerisce una riforma “leggera” della Costituzione. Quali sono i punti chiave?
Bisogna partire solo da modifiche specifiche e utili, mature e condivise. Per esempio la riduzione del numero dei parlamentari: arrivare a 470 deputati – invece degli attuali 630 – e 230 senatori porta a 700 parlamentari complessivi (meno della riforma del governo) e a due Camere più funzionali. Questo insieme con una riduzione dell’indennità parlamentare, ancorata allo stipendio dei professori universitari. Parimenti condivisa e agevole è l’eliminazione del Cnel, mentre il ping pong tra Camera e Senato può essere superato con una commissione paritetica tra deputati e senatori, che agevoli un testo condiviso.
E sulla democrazia diretta come intervenire?
Per il referendum abrogativo basterebbe abbassare il quorum alla maggioranza dei votanti nelle ultime elezioni per la Camera, cosa che la riforma tenta di fare, ma solo a condizione che le firme siano ben ottocentomila, favorendo così i quesiti dei gruppi maggiormente organizzati. Per l’iniziativa legislativa popolare si potrebbe riprendere la proposta di Mortati alla Costituente, per cui se il Parlamento non approva in un certo periodo la legge popolare possono farlo i cittadini con un referendum che in questo caso sarebbe deliberativo. Si tratta di proposte molto concrete, portate avanti, con qualche differenza, anche durante il dibattito parlamentare, alla Camera da Civati e al Senato da Chiti e Tocci. In questi giorni (settembre Ndr) le abbiamo rilanciate attraverso un documento che ho preparato e sottoscritto assieme a Gianfranco Pasquino, Maurizio Viroli e Roberto Zaccaria e mi pare che, da ultimo, anche alcune proposte avanzate dal presidente D’Alema presentino punti di coincidenza.
Un’ultima domanda. Chi sono gli autori del testo della revisione costituzionale?
Non conosco il dietro le quinte. Sto a chi l’ha sottoscritta. Questa è una proposta del governo che riscrive una grande parte della Costituzione. Viene quindi in mente la differenza con la Costituente, quando la redazione fu affidata a una Commissione (dei Settantacinque) con la presenza delle forze politiche rappresentative dei cittadini, mentre il governo rimaneva silenzioso. De Gasperi – presidente del Consiglio per tutto il periodo della Costituente – fece un solo intervento dal suo banco di deputato Dc. C’è una bella differenza.