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[su_divider text=" " style="dotted" divider_color="#d3cfcf"]L’anno è cominciato e noi ci rimettiamo al lavoro. Noi tutti intendo. Abbiamo chiuso il 2016 con un No importante, a una riforma della Costituzione che avrebbe consegnato definitivamente all’oligarchia (così l’ha definita Eugenio Scalfari nell’ergersi a suo difensore) il governo del Paese. Adesso dobbiamo mettere in campo tutti i Sì che, come abbiamo annunciato, erano dietro quel No. I primi, se la Consulta ce lo consentirà l’11 gennaio, saranno quelli ai referendum abrogativi su voucher, articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e sul ripristino della responsabilità dell’azienda appaltante, oltre a quella che prende l’appalto, in caso di violazione dei diritti dei lavoratori.
Dobbiamo poi difendere i Sì che abbiamo pronunciato con la mobilitazione del referendum sull’acqua pubblica del 2011. Siamo all’assurdo: la volontà espressa dal popolo scade come una bottiglia di latte. Il tempo è passato e qualche governante (si badi, non il Parlamento) può mettere in campo, assieme a un manipolo di Ceo, il progetto di tre, quattro macro-regioni in cui suddividere la torta della gestione privata puntando a controllare direttamente le sorgenti, come raccontiamo nel Primo piano. Questo si chiama gioco sporco, tradimento della volontà popolare. E purtroppo non lo abbiamo visto in pratica soltanto con l’acqua. Anche se poi, quando arriva il populista di turno a buttare a mare la democrazia rappresentativa con tutta l’acqua sporca, gridiamo allo scandalo.
C’è modo di incunearsi nel dualismo casta-populisti? Il modo è innestare elementi di democrazia diretta, sempre di più e sempre più efficaci, per ridare protagonismo ai cittadini e – perché no – ridimensionare la sfrontatezza di chi aggira i controlli democratici, decide nell’ombra, silenzia e reprime il conflitto. Eppure, se esercitato nelle forme democratiche, il conflitto è esso stesso democrazia, è il sale di una convivenza civile “funzionante”. Dai referendum svizzeri, al bilancio partecipato nato a Porto Alegre, fino alle assemblee divise per tavoli e coordinate da facilitatori che a Bruxelles hanno fatto raccomandazioni sulle grandi questioni. Gli esempi sono tanti, e concreti.
Resta da affrontare una questione ineludibile: nell’era della post-verità e delle disuguaglianze, della precarietà e della solitudine è sempre più difficile essere cittadini formati e informati, in grado di animare e alimentare i processi partecipativi. Per questo il nostro 2017 dovrà essere l’anno della democrazia diretta e allo stesso tempo, ancora una volta, quello della giustizia sociale. Non resta che rimboccarci le maniche e augurarci buon lavoro.
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