Il presidente Trump ha firmato l’ordine esecutivo pochi giorni fa e le multinazionali che hanno deciso di costruire l’oleodotto che dal Canada arriverà nelle raffinerie degli Stati Uniti passando per le terre sacre e le fonti di approvvigionamento di acqua dei Lakota Sioux hanno immediatamente ripreso la costruzione. Il campo che nei mesi passati ha raccolto fino a 10mila attivisti ambientalisti e nativi americani di tutte le tribù era quasi deserto ormai e le autorità locali avevano dato ordine di evacuarlo. I pochi che restavano hanno inscenato una protesta, fatto dei riti propiziatori e poi dato fuoco al campo. Alcuni sono stati arrestati. Difficile dire se questa storia finisca qui.
Tra le cose che sappiamo però è che le banche finanziano il progetto a prescindere dalle proteste dei nativi e degli ambientalisti. Tra queste c’è l’italiana Intesa Sanpaolo a cui Greenpeace Italia ha chiesto se intende proseguire nel finanziamento. L’olandese Amro ha infatti dichiarato che se la costruzione si farà senza l’assenso delle tribù locali, il suo finanziamento verrà meno.
«La domanda è doppiamente importante oggi, visto che la banca ha recentemente “confermato il suo impegno a seguire da vicino e con la massima attenzione i risvolti sociali e ambientali legati al finanziamento del Dakota Access Pipeline – in particolare il rispetto dei diritti umani – in coerenza con i principi espressi nel suo Codice Etico”, come si legge in un documento ufficiale», si legge nel comunicato di Greenpeace. (qui un articolo che segnala tutte le banche coinvolte nel progetto) Ambientalisti e tribù native hanno lanciato una campagna per disinvestire dalle banche che prestano soldi al progetto. È una modalità di azione che negli Usa ha spesso funzionato, proprio contro le multinazionali del petrolio.