Ieri nel carcere di massima sicurezza di Opera i detenuti hanno letto i nomi delle vittime innocenti di mafia. Ne scrive Manuela D’Alessandro nel sito giustiziami:
«Il pubblico è diviso a metà: sulla sinistra i condannati in regime di massima sicurezza, a destra quelli che devono scontare pene per reati meno gravi. In tutto sono più di un centinaio. Tra loro i familiari delle vittime e chi li accompagna ogni giorno nelle strade della prigionia. Arrotolano il foglio, tornano in platea e danno le mani a chi li aspetta, anche agli agenti delle polizia penitenziaria. “Sono stato combattuto fino all’ultimo perché non me sa sentivo di sporcare quei nomi con la mia voce. Mi sono detto ‘mi alzo o non mi alzo’, poi alla fine la mia coscienza mi ha suggerito ‘alzati, devi fare qualcosa’”. A Opera va in scena quella che il direttore Giacinto Siciliano, padre dell’iniziativa a cui ha aderito anche ‘Libera’, definisce “una prima assoluta in un carcere italiano”. Alcuni detenuti per reati di sangue salgono sul palco dell’auditorium per ricordare i 940 nomi delle vittime della mafia e, al termine della lettura, incontrano una decina di familiari caduti per mano della criminalità organizzata, dando vita una discussione carica di emozioni e contenuti.»
È una storia che non può andare di moda di questi tempi di vendetta e bava quella che racconta di detenuti che testimoniano oltre al ricordo anche una conversione eppure quello che è successo nel carcere di Opera (dove i detenuti hanno partecipato alla lettura delle vittime innocenti di mafia) è uno squarcio di un mondo possibile dove la detenzione non è il sacchetto dell’umido ma un percorso capace di portare nei posti più insperati.
Sono detenuti confiscati alle mafie, al pari di un’azienda o un’auto di grossa cilindrata, che vengono restituiti a se stessi. Non va di moda questa storia, no, e ci vuole un cuore veramente aperto per accoglierla. Eppure dentro c’è tutto: il coraggio di sfuggire al pensiero corrente di un giustizialismo rassicurante, la voglia di andarsi a prendere la fragilità anche dentro le storie più pelose e la sofferenza della complessità.
“Tutti fuori – dice uno dei detenuti – che dicono che ‘dobbiamo morire’ ed è giusto, il pregiudizio ci deve essere, siamo stati condannati. Mi vergogno a stare qua e mi vergognerei a scrivere una lettera alla ragazza figlia dell’ispettore che ho ucciso, a lei che a 12 anni disse in un’intervista che mi perdonava. Ma in carcere possiamo assumerci le responsabilità e crescere”.
Quando l’indicibile prova comunque a raccontarsi non si può che trarne vantaggio.
Buon mercoledì.