L’Olanda è vista da molti come il Paese della “tolleranza”. Eppure, in questa campagna elettorale, il Partito per la Libertà (Pvv) di Geert Wilders ha consolidato il proprio successo attraverso un programma islamofobo e xenofobo. Ne abbiamo parlato con la Professoressa Philomena Essed, docente dell’Università di Amsterdam che si occupa di razzismo, giustizia sociale e forme di discriminazione.
Professoressa Essed, cosa sta succedendo nei Paesi Bassi?
Occorre una premessa: non bisogna mai scordarsi che l’Olanda è stato storicamente un Paese di commercianti. Questi ultimi sono maestri nel costruire un “brand” quando serve. Nel caso dei Paesi Bassi, si potrebbe dire che si tratti, appunto, del marchio della “tolleranza”.
Cosa vuole dire?
Che non sono sorpresa del successo di Geert Wilders. Il Paese ha fondamenti economici solidi e si trova in una buona condizione.
E perché questo dovrebbe portare all’affermazione di un leader populista come Wilders?
Perché nonostante la situazione economica sia buona, l’Olanda è un Paese di piccole dimensioni, in cui la percezione del rischio di sopraffazione per opera di altre nazioni o popolazioni, è sempre stata presente. Non ruota tutto intorno all’economia: ci sono altri fattori che spiegano l’avanzata di Wilders.
Elementi culturali?
Certo. Ma anche storici. Non si può capire Wilders senza considerare la storia coloniale del Paese e, conseguentemente, l’evoluzione del razzismo in Olanda.
Sta dicendo che esiste una problema di “razzismo” nei Paesi Bassi che spiega il successo del Pvv?
Esiste una problematica legata al “razzismo” nei Paesi Bassi, come nel resto dell’Europa: in Germania, Francia, Svezia, Spagna, Italia, ecc. Tutti i Paesi condividono uno stesso problema che deriva dallo sviluppo storico e culturale del Continente e dell’identità europea.
Quali sarebbero i tratti distintivi del razzismo in Olanda?
Innanzitutto, l’aspetto del “diniego”, ogni qualvolta si accenna al problema: la popolazione olandese si sente moralmente al di sopra della questione. In secondo luogo, la pretesa di “innocenza”: un cittadino olandese accusato di razzismo, risponderebbe semplicemente che “non è possibile” e che, ovviamente, è stato frainteso. In definitiva, si tratta di aspetti legati alla percezione “morale” di se stessi. Un elemento che complica molto la risoluzione del problema sociale.
Perché?
Quando una persona percepisce il razzismo come un problema prettamente “morale”, è difficile che possa accettare la realtà dei fatti. Ciò lo obbligherebbe infatti ad ammettere un proprio “fallimento morale”.
Ma come si può guardare altrimenti al razzismo, se non in termini morali?
Il razzismo implica sempre una “relazione di potere”. Se si è in grado di guardare al problema attraverso questa lente, è più facile condurre un’autocritica (nonostante, l’elemento morale sia comunque presente).
Quali sono le prove che esiste un problema diffuso di razzismo in Olanda?
I dati indicano che il problema esiste: dalla segregazione nelle scuole, a quella nel mercato del lavoro, passando per quella urbanistica. Per non parlare dello sbilanciamento nella rappresentazione fisica e di prospettive nei media delle diverse comunità etniche che vivono in Olanda.
Non sarebbe più adeguato chiamare il fenomeno semplicemente “discriminazione”?
Quella che propone è una strategia argomentativa vecchia ed erronea. Purtroppo le persone non leggono la letteratura accademica e tendono, quindi, a diluire il problema in questo modo. Il punto è che il discorso sulle “discriminazioni” riduce il fenomeno razzista a pura “ideologia”.
Anche per l’Organizzazione delle Nazioni Unite, il razzismo non è semplicemente un’ideologia: è una pratica, un processo, una struttura. E la “discriminazione” è un meccanismo di funzionamento del razzismo. Il punto è che le persone non vogliono parlare di razzismo perché tendono a equipararlo esclusivamente all’Olocausto.
Prima ha menzionato la parola “colonialismo” e il concetto di “evoluzione del razzismo” in Olanda come fattori che spiegano il successo di Wilders. Di quale evoluzione parla?
In Olanda sono esistite, ed esistono, varianti “qualitative” di razzismo che non si escludono a vicenda, e che hanno colpito diverse minoranze etniche nel corso del tempo. Per esempio, storicamente, il primo tipo di razzismo è quello “paternalistico”, diretto agli immigrati che provenivano dalle colonie.
E quali erano i tratti distintivi?
Un impianto normativo-politico secondo il quale gli immigrati dai Caraibi e dall’Indonesia potevano essere educati completamente alla – e socializzati all’interno della – civiltà occidentale. In altri termini, che potessero diventare il “più olandesi possibile”.
“Più olandesi possibile”?
Nei Paesi Bassi c’è un proverbio che dice “se ti comporti in maniera normale, sei sufficientemente pazzo”. Tradotto nelle dinamiche sociali, significa che gli immigrati del periodo post-bellico dovevano essere totalmente assimilati. È un tipo di razzismo che non è scomparso del tutto, ma che è stato oscurato dal di razzismo ”competitivo”, ovvero quella convinzione in base alla quale ci siano gruppi di persone che vogliono sopraffarti nel “tuo” Paese.
Stiamo parlando del “classico” immigrato dell’Est che viene a rubare il lavoro …
Esatto. Ma in Olanda questo tipo di razzismo è stato diretto soprattutto ai musulmani, fin da quando sono arrivati nel Paese. In realtà era un fenomeno che toccava anche l’immigrazione coloniale. Ma, al tempo, il discorso non era intriso di odio come avviene oggi, nei confronti dei marocchini.
Perché questa differenza?
Al tempo, c’era la sensazione di poter “gestire” il fenomeno. Una percezione che si basava sull’assunto che “gli olandesi stessi avevano costruito le colonie”: si trattava di una certezza più forte della paura. Inoltre, va specificato che i migranti di allora conoscevano l’Olanda: parlavano fluentemente l’olandese e conoscevano la religione cristiana. Nulla a che vedere con il mix esplosivo dato dalla “paura del musulmano” e dal processo di integrazione europea, vissuto anche questo, come una sopraffazione burocratica diretta da Bruxelles.
Come è stata vissuta esattamente questo secondo flusso migratorio?
Inizialmente, le persone provenienti dal Marocco e dalla Turchia erano viste come “lavoratori ospiti”. L’idea era che sarebbero tornati nei propri Paesi. Un’illusione che si è sgretolata sotto ai processi di riunificazione famigliare. Attraverso questi ultimi, una “seconda generazione” – cittadini olandesi nati prevalentemente negli anni ’80-’90, o, comunque, cresciuti nei Paesi Bassi – è diventata parte della società olandese. Questa generazione ha sperimentato un Paese contraddistinto dalle lotte per i diritti al culto religioso (costruzione di moschee) e all’educazione religiosa (costruzione di scuole religiose), ecc.
Il razzismo competitivo è l’ultimo stadio dell’evoluzione?
No. Attraverso la lotta e la resistenza delle seconde generazioni è emerso quello che si può definire “razzismo legittimo” (“entitlement racism”). Si tratta di una variante che esplosa all’inizio del nuovo millennio. Fino all’inizio degli anni ’00 c’è stato un tacito accordo per cui, in politica, non c’era spazio per una retorica anti-immigrazione. Ma la discesa in politica di Pim Frotuyn ha rotto gli indugi e spezzato il tabù. Fortuyn risponde storicamente a ciò che si può definire una “rottura del codice”.
Dalla sua apparizione in poi, è diventato “di moda” dire qualsiasi cosa a proposito dei marocchini e, più in generale, dei musulmani. Non esiste offesa che non sia stata pronunciata. E con esse, il discorso del “lavoratore ospite” è stato spazzato via.
E poi cosa è successo?
Innanzitutto, le comunità marocchine hanno reagito, reclamando di essere a “casa propria” alla pari di qualsiasi altro cittadino olandese. Ciò si è tradotto anche in atti di violenza. E conseguentemente, il marocchino è diventato l’emblema del soggetto problematico e violento. È in questo momento storico che si è afferma quello che ho definito “razzismo legittimo”.
Che sarebbe?
Si tratta dell’auto-legittimazione a umiliare l’”altro”. Si è fatto largo un razzismo per cui si “può dire ciò che si vuole, quando si vuole”. E se ciò comporta essere definiti razzisti, tant’è … “si tratta di un problema dell’altra parte”. In altri termini, le persone hanno cominciato ad auto-sollevarsi dall’accusa di razzismo, perché in Olanda non “può esserci razzismo” – qui torna l’“innocenza olandese” di cui parlavo prima. E come ultima conseguenza, chi denuncia questa pratica razzista viene tacciato come “moralizzatore”.
Qual è stata la reazione a questa nuova forma di razzismo?
Prima e durante l’apparizione di Fortuyn, parte dell’accademia che si occupava di razzismo è stata silenziata attraverso attacchi verbali o testuali, oppure tramite la mancata assegnazione di fondi per la ricerca. Il razzismo come “problema sociale” è scomparso dai curriculum di studi – con l’eccezione di pochi accademici che hanno continuato, nonostante il contesto.
E la politica non ha reagito alla rottura del codice da parte di Fortuyn?
A causa dell’esclusione dell’accademia dai dibattiti pubblici ed educativi, i politici si sono trovati scoperti, senza possibilità di costruire un dialogo con Fortuyn. A quel punto, hanno cominciato a “disumanizzare” e umiliare il loro avversario, una strategia politica aberrante.
Anche quando si tratta di un politico razzista?
Non sono le persone a essere razziste, ma bensì il linguaggio, le azioni, i comportamenti, le pratiche. Stigmatizzare un individuo per un problema sociale non porta a soluzioni. Cosa si ottiene con l’estromissione della persona? A che tipo di società ci conduce una strategia di questo tipo? Per quanto possa essere in disaccordo con Wilders oggigiorno, non sono dalla parte di chi lo “disumanizza”.
Crede che l’umiliazione rafforzi il successo dei leader populisti di estrema destra?
Considerando che il punto di partenza di questi politici è la “vittimizzazione”, si rafforza il loro argomento. Ma anche da un punto di vista normativo, un politico dovrebbe sempre agire in maniera dignitosa. E l’umiliazione non può essere abbinata al concetto di dignità.
In buona sostanza, non c’è stato nessun tipo di dialogo dopo l’apparizione di Fortuyn …
Assolutamente. Allo stesso tempo, con una comunità accademica esclusa, le comunità etniche che erano state attaccate da Fortuyn, hanno reagito. Ed è stata persa la sfida dell’integrazione.
Perché la chiama “sfida”?
L’integrazione è sempre una sfida, visto che si tratta di condurre culture e tradizioni differenti a una mediazione. Deve essere rinegoziato uno “spazio comune”: cos è il bene comune? Quali sono comportamenti “legittimi” in Olanda, e quali no? Sono domande a cui va data una risposta.
Non crede che valga la pena preservare culture e tradizioni originali di un Paese?
Non credo che la cultura e la tradizione di un Paese vadano difese in quanto tali. La tradizione nasconde sempre un rapporto di forza. Quindi la domanda diventa, di nuovo, chi trae beneficio da quest’ultima? E perché? Sviluppare quello spazio di negoziazione significa coinvolgere le persone, garantire la non-discriminazione e allo stesso tempo andare alla ricerca di ciò che, inevitabilmente, sarà un equilibrio. Se invece si soffoca la discussione e, piuttosto, si stigmatizza un gruppo, si prepara la strada dell’umiliazione di quest’ultimo.
Quanto ha a che fare il “razzismo legittimo” con l’attitudine di leader populisti come Wilders?
Politici come Trump e Wilders personificano la logica che ne è alla base: non discutono, vogliono soltanto rilasciare affermazioni. E non si interessano alle idee degli altri. Il razzismo legittimo è legato alla stessa concezione egocentrica delle relazioni sociali.
Perché le persone dovrebbero essere attratte da un tale atteggiamento?
Perché ci sono persone che “invidiano” a questi leader la capacità di parlare liberamente e senza remora. Persone che si sentono “limitate” dai loro principi morali, che si sentono “prigioniere” delle norme sociali, che non hanno coraggio di prendere una posizione di fatto immorale.
Eppure, molte persone comuni utilizzano i social media per emulare quell’atteggiamento …
Sì, perché è uno strumento che permettere di condurre pratiche razziste e, allo stesso tempo, sottrarsi alle responsabilità. A quel punto il comportamento razzista non è più “immorale”, ma “a-morale”.
Crede che oggigiorno i media siano parte del problema? Rafforzano il successo dei leader populisti?
Il giornalismo e la politica sono professioni, ma sono comunque fatte di persone in carne e ossa, influenzate dal contesto culturale e storico in cui vivono. Quindi, non è una sorpresa verificare pratiche razziste nei media. Per quanto riguarda i leader populisti, purtroppo i media hanno trattato il fenomeno in maniera sensazionalistica: un approccio che non ha fatto altro che giocare a favore di personalità come Trump e Wilders.
Come si può affrontare il problema del razzismo in Olanda e altrove?
Spezzando il circolo vizioso di un linguaggio negativo, pieno di odio e di vittimizzazione. Molto passa attraverso gli esempi che si danno ogni giorno, visto che il razzismo è un problema quotidiano. Non c’è un’altra via. Ripristinare la dignità in politica è fondamentale. Detto ciò stiamo attraversando una fase storica. Seguiranno mutamenti e reazioni alla situazione attuale. Ad un certo punto, le persone ne avranno abbastanza del razzismo: capiranno che non rappresenta una soluzione ai problemi delle società contemporanee.